sabato 24 maggio 2014
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Ha portato molti frutti, ha acceso entusiasmi e promettenti primavere e talvolta si è dovuta momentaneamente arrendere di fronte a qualche gelata. Ma in definitiva la nuova stagione dell’ecumenismo inaugurata dall’incontro del 1964 tra Paolo VI e Atenagora ha fatto soprattutto maturare la consapevolezza che la ricerca dell’unità è un punto di non ritorno nei rapporti tra le confessioni cristiane. Alla vigilia dell’appuntamento che vedrà Francesco e Bartolomeo I ricordare quello storico inizio, non è inutile ripercorrere questi 50 anni, sottolineando i principali passi compiuti a partire proprio da quel 5 gennaio di mezzo secolo fa. In particolare, nella cronaca del primo incontro, colpisce la capacità di papa Montini di andare subito al punto centrale del problema, lo stesso ancora in discussione, e che dunque rende questa commemorazione quanto mai attuale. Quale era (e in definitiva è) la causa principale della divisione? Il primato. Paolo VI affrontò il tema con la finezza che gli era propria: «Nessuna questione di prestigio, di primato, che non sia quello stabilito da Cristo – disse –. Ma assolutamente nulla che tratti di onori, di privilegi. Vediamo quello che Cristo ci chiede e ciascuno prende la sua posizione; ma senza alcuna umana ambizione di prevalere, d’aver gloria, vantaggi. Ma di servire». Così, con poche parole veniva fissata la direzione di marcia del futuro: l’abbraccio per sancire la riconciliazione, il dialogo (della carità e teologico) per superare i residui ostacoli. Era dal Concilio di Firenze (1438) che un Papa e un patriarca ecumenico di Costantinopoli non si vedevano (in quella occasione il Papa era Eugenio IV e il Patriarca Giuseppe II). Ma dopo il 1964 i contatti tra Roma e Costantinopoli hanno cominciato a susseguirsi a ritmo sempre più intenso. Il 7 dicembre 1965 vi fu la remissione delle reciproche scomuniche. Quindi il 5 luglio 1967 Paolo VI si recò al Fanar, sede del Patriarcato ecumenico, e Atenagora ricambiò venendo a Roma il 26 ottobre dello stesso anno. La visita diventava così un nuovo stile nelle relazioni tra le Chiese. Al punto che proprio in quegli anni nacque anche la consuetudine, che dura tuttora, dello scambio di delegazioni per le annuali feste dei santi Pietro e Paolo (29 giugno) e di sant’Andrea (30 novembre). La prima volta avvenne proprio nel 1967 quando una delegazione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli partecipò alle celebrazioni in Vaticano. E da parte della Santa Sede l’usanza di ricambiare si deve al cardinale Johannes Willebrands, presidente del Segretariato per l’unione dei cristiani (l’attuale Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani), che nel 1969 prese l’iniziativa di recarsi a Istanbul per il 30 novembre. Esattamente dieci anni dopo sarà Giovanni Paolo II a visitare il Fanar nel giorno di sant’Andrea. Ad Atenagora è nel frattempo succeduto Demetrio I, ma il clima ecumenico non accenna a raffreddarsi. Anzi tra i frutti di quell’incontro c’è la decisione di costituire la Commissione mista internazionale per il dialogo teologico cattolico-ortodosso. Si realizza così – anche a questo secondo livello – l’auspicio espresso da Paolo VI nel primo incontro con Atenagora. E dall’inizio degli anni ’80 la Commissione inizia i suoi lavori in sessioni periodiche, che sfociano in altrettanti documenti. Quello sull’Eucaristia nel 1982, su fede sacramenti e unità nel 1987, sul sacramento dell’Ordine nel 1988 e quello sull’uniatismo nel 1993. Ma è proprio intorno a questo tema che si registra la più importante gelata nei rapporti riallacciati. Dopo la caduta del muro, nuove possibilità di evangelizzazione si aprono all’Est. Ma le Chiese ortodosse (e soprattutto il Patriarcato di Mosca) già infastidite per la presenza sui loro territori di comunità di rito orientale che sono in piena comunione con Roma (definiti uniati con termine vagamente spregiativo), non vedono di buon occhio l’arrivo fra esse di missionari cattolici. Nella loro visione questo è proselitismo. Nella sessione di Balamand in Libano, all’inizio degli anni ’90, il dialogo teologico si interrompe. Ma per fortuna non cessano del tutto i contatti al massimo livello. E in questo contesto giunge anche la pubblicazione dell’enciclica "Ut unum sint", che Giovanni Paolo II dedica all’ecumenismo (maggio 1995). Un mese dopo, il 29 giugno, Bartolomeo I, nel frattempo succeduto a Demetrio, viene a Roma per la festa di Pietro e Paolo e insieme con il Papa recita il Credo niceno-costantinopolitano sulla tomba dell’Apostolo. Quella visita riaprirà spiragli di dialogo e favorirà anche il trionfale viaggio di Wojtyla in Romania (1999) e quello più sofferto in Grecia (2001). Il resto è storia recente. Con l’elezione di Benedetto XVI comincia il disgelo anche con Mosca (diffidente nei confronti di Giovanni Paolo II anche e soprattutto per la sua nazionalità polacca) e nel 2006 riprende il dialogo teologico, che porterà al cosiddetto documento di Ravenna (2007) su conciliarità e autorità, in cui in pratica «entrambe le parti concordano sul fatto che Roma, in quanto Chiesa che presiede nella carità, secondo l’espressione di sant’Ignazio di Antiochia, occupava il primo posto nella taxis (cioè l’ordinamento della Chiesa universale) e che il vescovo di Roma è pertanto il protos (il primo) tra i patriarchi». Ma su quello che questo comporti sul piano della giurisdizione non c’è accordo. Quel che ciò comporti sul piano della giurisdizione, che è poi oggi la questione più delicata, avrebbe dovuto essere l’oggetto di un ulteriore documento, il cui studio è stato affidato a una commissione ad hoc. Ma lo stop dato da Mosca – in polemica con le altre Chiese ortodosse – all’approvazione del documento di Ravenna ha di fatto fermato il lavoro della commissione. La speranza è che il Grande Concilio delle Chiese ortodosse, fissato nel 2016, possa far ripartire anche il lavoro ecumenico. L’atteggiamento di papa Francesco, che fin dal primo momento si è riferito a se stesso come vescovo di Roma e che parla spesso di sinodalità, ha sorpreso favorevolmente gli ortodossi e potrebbe aprire nuove prospettive. L’inizio, molto promettente, è proprio l’incontro che ci apprestiamo a vivere a Gerusalemme. Una prima volta anche questa, come 50 anni fa. Perché per la prima volta un Papa e un Patriarca pregheranno insieme sulla tomba vuota di Cristo.
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