Giunto in Italia, dopo l’incontro con Shelley a Ginevra, che sanciva la nascita di un’amicizia perenne, George Gordon Byron iniziò il suo viaggio in Italia.
Dove trovò la città era al culmine dei suoi sogni, come l’Oriente: Venezia lo incantò all’istante, definitivamente, imprimendogli come sigilli i suoi nomi, che il poeta, appena arrivato, scriveva in italiano nelle sue lettere: gondola, conversazione, mantello, cavalier servente, amoroso, amante...Dopo tre mesi, stabilitosi nella città- specchio, dichiarò di voler diventare uno scrittore di lingua italiana: in quel momento a soli 28 anni era il poeta inglese più famoso e ammirato.
Sapeva che ci sarebbero voluti anni per conquistare la lingua, anni che la vita non gli concesse. Riuscì comunque a compiere un capolavoro: Byron divenne, secondo me, il più grande poeta eroicomico italiano di lingua inglese: il genere, specie nei versi del Pulci, gli ispirò i poemi Beppo e Don Juan, dove il poeta scatena il suo genio, la malinconia si fonde con il riso, lo struggimento con lo sberleffo. In questi poemi inventa l’ottava, una strofa che introduce nella poesia inglese, sul modello di quella italiana di Ariosto e Pulci. Il viaggiatore continuamente cerca, il poeta parte, e trova.
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