C'è una scuola di pensiero che adora minimizzare - se non ridicolizzare - tutto ciò che è italiano. Escluso il Made in Italy, naturalmente, ovvero quell'insieme di brand (marchi) che spesso affliggono l'eleganza presunta di tanti snob "firmati" dalla testa ai piedi. Ho sentito, ad esempio, sghignazzi a proposito degli americani che nel prossimo futuro potrebbero guidare auto italiane, dalla piccola accurata Cinquecento alle sportivissime Alfa, come se solo alla preziosa Ferrari (una Fiat, comunque) fosse consentito rappresentare l'Italia dei motori; per non citare il tentativo di minimizzare l'eccellente qualità della Ducati che - poverina - invece di nascere a Tokyo nasce a Borgo Panigale, Bologna.
Ho citato il mondo dei motori perché è quello più vicino - sportivamente parlando - al calcio, puntualmente messo sotto accusa da chi non ha saputo nascondere la frustrazione causata dall'assenza di squadre italiane nella finale di Champions. Oggi parlar male del calcio italiano è un esercizio quotidiano: peccato che si dimentichi - a proposito di Coppa dei Campioni - il fatto che l'Italia detiene il record di finali giocate (venticinque su 54 edizioni) dalle quali ha ricavato undici vittorie, tante quante l'Inghilterra, una in meno (da mercoledì sera) della Spagna.
Così come si dimentica, nonostante il vigoroso e fin sfacciato assalto al carro dei vincitori, per trovarvi posto, naturalmente, verificatosi nell'estate del 2006, con quel finalone al Circo Massimo che ha polverizzato - per presenze - tutti i precedenti record, veri o fasulli, delle adunate oceaniche di sindacati e partiti politici: insomma, siamo campioni del Mondo in carica e non possiamo buttar via tanti meriti solo perché Inter, Juventus e Roma hanno "bucato" la Coppa dalle grandi orecchie. Chi capisce di calcio, sa che non
è obbligatorio prendere esempio dai club euromilionari che in questo campionato sono
stati tecnicamente surclassati da club più modesti (e meno spendaccioni) come il Genoa e il Cagliari, tanto per dire. Ho anche sentito dire che il nostro calcio non ce la fa perché non ha i soldi dei ricchi club inglesi o del favoloso Barcellona: è un evidente invito ad imitare gli stranieri che in realtà - è documentato - sono ricchi soprattutto di debiti. Su questo terreno, a costo di essere accusato di demagogia, cercherei piuttosto di recuperare senso della misura e decenza: perché certe
enormi spese per arricchire tecnici e pedatori - in un Paese che vede tanta brava gente ridotta in miseria - gridano vendetta. Una cosa vorrei fosse imitata dagli amici stranieri: l'educazione. La straordinaria festa dell'Olimpico, con gli inglesi che, rassegnati, si sono sportivamente uniti agli spagnoli esultanti, ha dato un'immagine di sport per noi inusitata, quasi inedita.
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