Una parola banale e superficiale, specialmente se usata con una smorfia di soddisfazione, rivela un pensiero banale e superficiale, un'anima spenta e un cuore in stand-by. Nessuno si senta offeso, ma usare nel 2018 il termine "buonista" come epiteto da affibbiare a casaccio è una parolaccia e basta, stupida al pari di ogni semplificazione.
E pensare che tanti anni fa, il primo maggio 1995 sul "Corriere della Sera", Ernesto Galli della Loggia scrisse per primo "buonista" riferendosi alla cattiva, o assente, gestione dell'immigrazione. Allora, uscita dai polpastrelli d'un professore, poteva avere una sua sarcastica dignità. Concediamolo: all'inizio poteva stigmatizzare la bontà esibita e ostentata da una certa sinistra melensa, sentimentale e infantile. Ma già nel 1998, quando il "buonismo" sgorgò al "Maurizio Costanzo Show", si avvertivano i miasmi della putrefazione. E oggi? Oggi la parolaccia è ridotta a epiteto acido, uno sberleffo che chiude ogni discussione racchiudendo l'avversario dentro la gabbia d'uno sghignazzo.
Esagerazioni? Prendiamo due titoli di un quotidiano italiano che, dopo certi fatti del settembre 2009, che riguardarono da vicino "Avvenire", ci rifiutiamo di nominare. Entrambi a tutta prima pagina, secondo costume, entrambi in riferimento a due tragedie dell'immigrazione nel Mediterraneo: "Trecento morti di buonismo" (4 ottobre 2013), "Settecento morti di buonismo" (20 aprile 2015). Che il titolista sia lo stesso?
Il sospetto è che buonisti siano, nella stragrande maggioranza dei casi, persone semplicemente buone, gentili, caritatevoli, che agli italiani del risentimento e della vendetta devono apparire irrimediabilmente ingenue, manipolate, quindi pericolose. Che fine farebbe oggi Giovanni XXIII, il "Papa buono"? "Fate una carezza ai vostri bambini...". Ma quale carezza? I bambini vanno tirati su con severità, senza smancerie, basta con questo buonismo! Infatti i bambini accarezzati la sera dell'11 ottobre 1962 sarebbero diventati tutti capelloni sessantottini e drogati. Anche il "Papa buonista" finirebbe nel tritacarne della semplificazione, nel buio pozzo dell'intelligenza pigra. Come un altro Papa dopo di lui, il cui nome richiama il Santo di Assisi, un buonista ante litteram che cicalecciava con gli uccellini. Sul fatto poi che a Gubbio il "poverello buonista" sia riuscito a raggiungere un accordo tra gli umani e il lupo facendo da garante durante i colloqui di pace, dimostrando una sagacia da consumato negoziatore Onu, ovviamente si sorvola.
Che fare, di fronte alla parolaccia? Poco o nulla. Come spiega il linguista Giuseppe Antonelli, "buonista" è solo un'espressione di punta, rivelatrice di una tendenza consolidata. Nell'ultimo quarto di secolo siamo infatti transitati dalla lingua "artificialmente alta" della prima Repubblica a quella "altrettanto artificialmente bassa" della seconda Repubblica, una lingua basica, elementare, grossolana di cui non solo non ci si vergogna, ma ci si vanta. Buonista, in questo triste contesto, diventa la parola "arma fine di mondo": una volta esplosa, segna la fine del dialogo e l'annichilimento degli argomenti della ragione.
Rispondere al fuoco affibbiando uno speculare "cattivista"? Errore. Non che di cattiveria non ne scorra a fiumi, trasudando ovunque, dalle piazze ai giornali, dai social alla tv, fino alle nobili aule di Montecitorio e Palazzo Madama. Ma è bene far tesoro delle parole di George Bernard Shaw: «Ho imparato tanto tempo fa a non fare la lotta con i maiali. Ti sporchi tutto e, soprattutto, ai maiali piace». Chi ne è capace ricorra all'ironia, che ai cattivi risulta insopportabile quanto l'aglio a un vampiro.
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