Il debito storico che l’Europa ha verso il popolo ebraico non sarà mai colmabile. Per quanto avvenuto nella scelleratezza nazista che ha realizzato la Shoah, e per tutti coloro che hanno in diverso modo contribuito al criminale progetto della «soluzione finale», facendosi strumento di Hitler – dalla Francia di Vichy all’Italia delle "leggi razziali" del 1938, ad altri alleati del nazismo – non c’è possibilità di riscatto se non nell’impegno di ciascuno di noi perché nulla di ciò che è accaduto si ripeta, contro il popolo ebraico, e chiunque altro sia colpito da persecuzioni.
La guerra oscena condotta contro la famiglia ebraica che, con la sua origine, storia, cultura, è a fondamento e base della civiltà umana, aveva radici più antiche rispetto al nazismo: esse chiamano in causa quella cultura ottocentesca che ha alimentato un razzismo antisemita insinuatosi poi nella politica, nel costume, nel senso comune di tante terre d’Europa. L’ha ricordato Hannah Arendt nel testo "Le origini del totalitarismo"; lo testimonia l’opera di intellettuali e filosofi che nell’Ottocento dichiaravano la nazione ebraica come nazione straniera (J. F. Fries), negavano i diritti civili agli ebrei (J. G. Fichte), perché questi sarebbero stati colpevoli per il solo fatto di essere tali. La memoria di queste radici nefaste, con gli esiti che hanno portato alla Shoah, ci dice quanto gravoso è l’impegno dell’Europa nel combattere l’antisemitismo.
È un impegno che ha portato a importanti risultati, ma non ha raggiunto l’obiettivo, perché di nuovo vediamo riemergere qua e là quella malapianta, come autentica malattia dell’animo umano, che l’uomo però ha inventato e alimentato con ideologie razziste che hanno portato a infinite tragedie in tante parti d’Europa. Molti di coloro che hanno vissuto parte del Novecento hanno ritenuto a un certo punto che l’antisemitismo fosse stato sconfitto dopo aver fatto tutto il male possibile. Non è così. Attraverso dimenticanze interessate, ambigue distinzioni/confusioni politiche tra israeliani ed ebrei, nuovi vessilli razzisti sbandierati su vaste aree del Medio Oriente, tante, troppe cose, permettono alla malapianta di mettere nuove radici in culture politiche di diversa estrazione della nostra società. Lo denunciano da tempo intellettuali come Alain Finkielkraut, Bernard Kouchner, Georges Bensoussan, Harold James, che richiamano l’attenzione sul perdurare di un antisemitismo che resiste in Europa nonostante i progressi civili, culturali, dei diritti umani. Fa male nel profondo sentir dire che stiamo in un’epoca post-hitleriana, ma "gli ebrei hanno il cuore affaticato, per la prima volta dopo la guerra hanno paura"; stringe il cuore vedere le nuove forme dell’antisemitismo, anche in un ambiguo multiculturalismo, e verificare che la perdita della memoria della shoah può diventare un male oscuro per le nuove generazioni.
Partendo da questa realtà, che non va taciuta, si può tornare a fare su queste colonne una riflessione sul reato di negazionismo, già introdotto in alcuni ordinamenti europei, e mercoledì sera approvato con legge anche in Italia, con una formula ampia che punisce chi nega l’esistenza di crimini di guerra o di genocidio o contro l’umanità. È evidente che alcune parti della legge sulla punizione di atti di odio razziale o incitamenti a commetterli, sono condivisibili. Ma il punto qualificante della legge, relativo al negazionismo, suggerisce una riflessione che, proprio invocando un impegno strategico contro antisemitismo e razzismo, conferma dubbi non secondari sulla utilità ed efficacia di questo tipo di mezzi legislativi. Dobbiamo valutare ad esempio il rischio che a decidere, nel concreto, quando si sia di fronte a un genocidio e a uno sterminio, siano i giudici, magari mettendo testi storici a confronto, e lo decidano con strumenti giuridici che non sono adatti ad affrontare, o concludere, la ricerca e il dibattito storico. Con il rischio aggiuntivo che la "verità giudiziaria" formuli quasi una graduatoria tra stermini, attenuando la responsabilità per alcuni di essi rispetto ad altri.
Altrettanto, non va sottovalutato il pericolo che alcuni negazionisti si nascondano dietro il diritto di libertà di opinione (che non va incrinato, né assolutizzato) per difendersi nei tribunali, ottenendo magari qualche sia pur effimero successo. Forse, però, il rischio più sottile è che la legge sul negazionismo divenga indirettamente un alibi per la coscienza, che faccia credere che così s’è posto fine al razzismo e all’antisemitismo, e la questione può considerarsi chiusa. Movendo dalle posizioni di alcune forze politiche xenofobe di fronte al fenomeno dell’immigrazione siamo consapevoli che le pulsioni razziste e xenofobe non sono tramontate, possono risorgere, in forme diverse, ma non per questo meno gravi. La lotta contro ogni forma di razzismo richiede qualcosa di più di una formula giuridica che stabilisca 'verità di Stato', esige un impegno sociale e culturale che inizi nella scuola, nella formazione delle nuove generazioni, prosegua nel campo della ricerca perché siano portati alla luce i massacri e gli stermini che in tante parti del mondo sono stati perpetrati, da quelli staliniani a quelli di Pol Pot in Cambogia, ad altri che possono verificarsi nell’epoca segnata dal sorgere di fondamentalismi che colpiscono per motivi di religione comunità intere di persone nel Vicino Oriente e in Africa. Questo impegno non può essere supplito da una pronuncia giuridica, perché chiama in causa la coscienza di ciascuno di noi e chiede alla scuola, alle istituzioni, alla società nel suo insieme di accertare la verità storica e impegnarsi contro la violazione della dignità della persona in ogni parte della terra.