Si è chiusa ufficialmente così il 31 dicembre la presidenza italiana (al di là dell’appendice del discorso che il nostro premier terrà il 13 gennaio all’Europarlamento). Sei mesi volati via, all’indomani di quel 26 maggio quando, nelle urne, Renzi trovò due validi motivi per festeggiare: il Pd portato al 40,8% dei consensi e il fatto di raggiungere d’un sol colpo una caratura internazionale, in quanto leader del partito più votato in tutta l’Europa. Molti, su quelle basi e sull’onda della "retorica del semestre" alimentata nei mesi precedenti, avevano pensato a un periodo carico di promesse per il Belpaese. In realtà – e su queste colonne lo avevamo evidenziato sei mesi fa –, la singolare concomitanza dell’insediarsi di un nuovo Parlamento e di una nuova Commissione, con le inevitabili pastoie politico-burocratiche e i conseguenti lunghi periodi d’inattività, lo ha reso una sorta di "semestre bianco", segnato dall’oggettiva difficoltà, anche temporale, di portare a casa in tempo utile risultati concreti. Un fattore di cui si deve tener conto, nel ripercorrere questi mesi passati. E un cammino che è stato reso ancor più accidentato dall’imprevisto peggioramento delle condizioni dell’economia (all’opposto di quanto accaduto negli Usa). Nonché dall’aggravarsi della crisi ucraina esplosa a marzo, tutta segnata – sul piano diplomatico, poi sfociato il 5 settembre nella tregua stipulata a Minsk – dallo sforzo italiano per non far assumere all’Unione una linea troppo punitiva verso la Russia.
Il campo più atteso era quello dei conti pubblici, resi ormai quasi un’ossessione dall’attenzione costante degli euro-burocrati di Bruxelles. Non per niente su questo tema si era giocata buona parte della campagna elettorale per le europee, incentrata sullo slogan "basta austerità" e sull’esigenza di cambiare le priorità politiche dell’Unione. Dopo tanto strombazzare su quelle che dovevano essere le nuove parole chiave – crescita e occupazione –, al tirar delle somme Renzi due risultati li ha ottenuti: l’ingresso del termine flessibilità nelle conclusione dell’ultimo Consiglio Europeo del 18 dicembre (dopo il "debutto" del termine al Consiglio di fine giugno) e il via libera al piano del neo-presidente della Commissione, Juncker. Presentato, quest’ultimo, come il segno del "cambiamento di verso" imposto all’Europa dopo anni passati a parlare di tagli. Ma anche un progetto che rischia di divenire l’ennesima "incompiuta" europea: i 315 miliardi d’investimenti ipotizzati si ottengono solo grazie al potenziale effetto-leva degli appena 21 miliardi oggi disponibili e, in ogni caso, suddivisi fra i 28 Stati membri e gli oltre duemila progetti predisposti sono in fondo poca cosa. Oltretutto, i dettagli saranno definiti solo entro febbraio e il via operativo non scatterà prima di giugno. Negli stessi mesi si spera di avere maggiori indicazioni pure su come sarà declinata quell’applicazione più estesa dell’auspicata flessibilità, a partire dallo scorporo dei contributi nazionali destinati al piano Juncker. Insomma, sono state poste un paio di prime pietre, ma la costruzione è tutta da realizzare. Lo stesso Renzi giorni fa si è limitato a ribadire che questi 6 mesi hanno segnato «una nuova stagione, per noi e per l’Europa: crescita, e non solo austerità, è l’eredità che lasciamo». Intanto, malgrado il passaggio dall’ex presidente Barroso a Juncker, Palazzo Chigi continua a misurarsi con le attuali regole del rigore: a marzo è atteso al vaglio del giudizio finale della Commissione sui conti italiani, dietro cui si nasconde una possibile procedura d’infrazione per debito eccessivo o per squilibri macroeconomici. Una partita in cui sembra poter dire una parola forte il vicepresidente, il "falco" finnico Katainen, che ha ottenuto una supervisione sull’economia nella battaglia per la nuova Commissione, che ha visto Renzi concentrato nell’imporre Federica Mogherini come Alto Rappresentante per la politica estera, un ruolo importante ma la cui valenza strategica è ancora da dimostrare.
Né è andata meglio sui fronti del lavoro (la proposta italiana di aumentare di 6 miliardi il fondo per i giovani si è risolta in un nulla di fatto) e dell’industria. In questo campo, molto si puntava sul regolamento per il "Made In", già approvato in Commissione e Parlamento Ue, ma avversato in Consiglio dalla Germania, che una volta in vigore obbligherà gli Stati a indicare l’origine dei prodotti. Passi avanti, però, non se ne sono fatti. Lo stesso sul Ttip, il trattato di libero scambio con gli Usa. Per ritrovare qualche risultato bisogna guardare alla chiusura dei negoziati per il bilancio comunitario 2015 e ai pacchetti agricoltura e clima. Nel primo campo l’Italia ha spuntato un accordo che consente a ogni Paese di proibire la coltivazione degli Ogm, ma sulla sola base del mercato nazionale e non per i presunti rischi ambientali nella qualità dei prodotti. Sui cambiamenti climatici la presidenza italiana ha chiuso a ottobre il dossier (già avviato dalle precedenti presidenze), consentendo almeno alla Ue di presentarsi con una linea chiara al vertice mondiale di Lima. Sul piano fiscale, non si è riusciti invece a definire una posizione sulla "Tobin tax" sulle transazioni nelle Borse, ma almeno a inizio dicembre è stata avviata la stretta contro l’evasione fiscale delle multinazionali, tema reso attuale anche dalla vicenda Luxleaks che ha coinvolto proprio Juncker.
Per quanto riguarda le politiche di accoglienza e salvataggio dei migranti, sul piano formale si può ritenere un successo il passaggio dall’operazione Mare Nostrum (tutta gravante, a livello di costi, sulle spalle italiane) al programma Triton, avvenuto il 1° novembre col coinvolgimento stavolta di 17 Paesi (e il passaggio a 34 mezzi, fra navi e aerei). Sul piano pratico, tuttavia, poco è cambiato: gli arrivi sono rimasti immutati a novembre e dicembre, e le forze disponibili per i salvataggi sono diminuite. Scarni risultati anche sullo sviluppo dell’agenda digitale, altro tema ripetutamente caricato di aspettative da Renzi, ma dove i progressi per l’Italia stentano a vedersi: l’ultimo rapporto Eurostat indica che il 32% dei nostri concittadini non ha mai usato Internet. Peggio di noi stanno solo Bulgaria, Romania e Grecia. Non resta che aspettare i 7 miliardi annunciati, da qui al 2020, per la diffusione della banda larga. Il più classico dei bilanci in chiaroscuro, come si vede. Di un semestre non certo vissuto pericolosamente, peraltro poco europeo e molto imperniato sui riflessi in chiave interna dei vari dossier comunitari. Ma nella storia infinita di Bruxelles c’è sempre un nuovo capitolo dietro l’angolo. Lo stesso Renzi l’ha ricordato giorni fa, spostando già l’orizzonte: ora, ha detto, per l’Europa è il 2015 che «deve essere l’anno dei fatti». La presidenza italiana è già archiviata.