La saga cinematografica dei dinosauri parte dalla tesi che una cellula di quella specie estinta si è conservata in modo fortuito e da quella cellula si può far rinascere l’intera stirpe: comincia il primo film e noi vediamo i dinosauri camminare col loro lungo collo in una foresta domestica. Allo stesso modo credo che il fenomeno epocale che chiude una fase storica dell’umanità e ne apre un’altra, e che noi chiamiamo 'migrazione' (il termine 'immigrazione' è più piccolo e indica una porzioncina dell’evento), si possa ricostruire meglio da qualche singola immagine o scena che non da complessi ragionamenti sul Pil, l’agricoltura, il colonialismo, l’istruzione, lo sviluppo tecnologico, e simili. Ho qui davanti la foto di Josefa. In questa foto c’è tutto. Spero che finisca nei testi di storia delle Superiori domani, quando il titolo dell’ultimo capitolo sarà 'Migrazioni'.
Oggi i giornali dicono 'Josefa è una sopravvissuta', e non è vero. È stata in mare, aggrappata a un pezzo di legno del suo barcone affondato, due giorni e due notti, e in quel tempo infinito tu non sopravvivi ma muori, e quando ti tirano su e ti salvano non sopravvivi ma rinasci. La migrazione è una morte, l’approdo è una rinascita. C’è un film americano in cui un detective scopre l’assassino sviluppando l’immagine impressa nell’occhio dell’assassinato: è l’ultima visione che s’è stampata su quell’occhio, prima che si distrugga si può usarla, a futura memoria.
Così negli occhi di Josefa è impressa la visione della morte, una visione vista tutti i secondi di tutti i minuti di tutte le ore di un giorno e una notte più un altro giorno e un’altra notte. Josefa ha convissuto a lungo con la morte, e in quella convivenza è morta. Tirandola su le hanno dato un’altra vita, quella di prima è perduta. Il passaggio dalla morte alla vita è scritto nella sua faccia. Soprattutto negli occhi e nella bocca. Sono occhi che hanno visto un fantasma e poi un altro fantasma. Il primo fantasma è la sterilità, non riusciva ad aver figli e per questo il marito la picchiava continuamente.
Lei non capiva perché, non era colpa sua. Salendo su un barcone, voleva non esser più picchiata, sperava che il mare fosse meno cattivo del marito, e non le mostrasse i pugni. Ma il mare è stato più cattivo, e le ha mostrato la morte. Se non sono male informato, il barcone s’è sfasciato dopo 60 miglia. Poche, niente. 'Partire è morire un po’', ma partire come partono i migranti è morire tutto e subito. Sono così frequenti i naufragi, che ormai i partenti mettono in conto che possono non arrivare mai. Dunque, partono mettendo in conto il nonarrivo. Dunque, è meglio non arrivare che restare. Cioè, restare è peggio che naufragare. Altre volte ho parlato del 'restare' come 'morte lunga' e del naufragare come 'morte breve'. Meglio una morte breve che una morte lunga. Nel naufragare c’è un tornaconto.
Ma Josefa ha gli occhi sbarrati perché vede da vicino il suo tornaconto, e la visione la fa morire di spavento. Non ha occhi o bocca supplici, è supplice chi spera salvezza, Josefa ha oltrepassato i confini della speranza, è entrata per un giorno e una notte più un altro giorno e un’altra notte nel territorio della fine di tutto e dell’assenza di ogni speranza. Noi europei ci domandiamo perché gli africani s’imbarcano continuamente, se continuamente naufragano. Parliamo come se davanti ai partenti si aprisse un ventaglio di scelte, e loro scegliessero la peggiore. Mi domando quale fosse la scelta giusta per Josefa. E non la vedo.