Da decenni il mito di una Scozia indipendente viene cullato da quella scia nazionalista che ha sempre rappresentato se stessa solo in contrapposizione a Londra. Cos’è essere scozzesi? Odiare gli inglesi, vi risponderebbe un nazionalista di Glasgow o di Aberdeen, senza darvi il tempo di accennare anche ai vantaggi di cui la Scozia ha goduto in questi tre secoli. Un risentimento acuto, che fa leva sul declino industriale che ha visto andare in crisi acciaierie e cantieri navali, sulla voglia di gestire in proprio i proventi petroliferi del Mare del Nord, sul desiderio mai nascosto di creare al di qua del vallo di Adriano una socialdemocrazia di stampo scandinavo. E, non da meno, sull’imperativo di non farsi mai più governare da un esecutivo conservatore, con i tory visti da queste parti solo come freddi snob dall’accento esageratamente “posh”, benestanti buoni per studiare a Eton e dirigere grandi aziende con troppa avidità. Naturalmente, fosse stato «solo» per questo Londra non avrebbe mai acconsentito a tenere un referendum vincolante sull’indipendenza scozzese. Già nel 1997 un altro referendum aveva portato alla devolution e alla creazione di un Parlamento a Edimburgo, ma l’idea della secessione restava, appunto, confinata in un angolo. Negli ultimi anni, però, il progressivo indebolimento dei partiti tradizionali e il parallelo emergere dello Scottish national party come forza catalizzatrice del risentimento scozzese ha provocato l’impensabile. Nel 2011, lo Snp, martellando proprio su un referendum per l’indipendenza, arriva al 53% e conquista ben 69 seggi su 129 al Parlamento di Holyrood. È il momento di battere cassa, è il ragionamento del leader Salmond, ora o mai più. I negoziati con Cameron sono lunghi, ma otto mesi di trattative e 30 clausole dopo l’accordo è fatto e viene firmato nell’ottobre 2012 a Edimburgo. Viene stabilito che ci sarà una e una sola domanda, nessun piano B che includa magari una “devomax”, una devolution ancora maggiore. «Così finirà quest’incertezza», è la chiosa di Cameron, al quale i sondaggi garantiscono di gran lunga la vittoria unionista. È l’inizio di questa pazza campagna durata due anni e che potrebbe finire con lo sconvolgere gli assetti istituzionali britannici, con una nuova vampata anti-unionista anche nell’Ulster. L’effetto domino delle rivendicazioni autonomistiche potrebbe poi travolgere altri Paesi europei, dalla Spagna, che guarda con timore ai proclami catalani, al Belgio in preda alle lotte intestine tra fiamminghi e valloni. Non è un caso, dunque, se a Bruxelles si speri nella vittoria del no.
Una Scozia indipendente equivarrebbe per Londra a un’amputazione senza anestesia. Via un terzo del territorio britannico, via l’85% delle riserve di petrolio e gas, via i sottomarini nucleari dalla base di Faslane. Con un’economia da 150 miliardi di sterline, la Scozia produce l’8% dell’intera ricchezza britannica e contribuisce all’8,2% di tasse (senza considerare l’industria del greggio del Mare del Nord). La stessa sterlina, lo si è già visto in questi giorni con il crollo sul dollaro, si indebolirebbe e il deficit statale subirebbe in maniera netta le mancate entrale fiscali derivanti dal petrolio. Tra le poche note positive per Londra, il molto probabile spostamento a sud di grandi aziende e banche d’affari. Ultima ad annunciarlo la Royal Bank of Scotland, per l’81% di proprietà dei contribuenti britannici dopo il salvataggio su cui ha potuto contare nel 2008-2009. Gli indipendentisti sostengono che il nuovo Stato avrà 1.500 miliardi di sterline di gas e petrolio ancora da estrarre ed entrate fiscali nei prossimi cinque anni per 57 miliardi di sterline, che costituiranno le fondamenta di un’economia alla norvegese, con un welfare ben più esteso di quello attuale. Molti analisti (e la stessa Londra) ritengono però che le riserve siano sopravvalutate, fanno notare che la produzione di idrocarburi è scesa dal 2011 del 38% e che solo con un drastico aumento delle tasse – di cui ovviamente nessuno tra gli indipendentisti parla – ci si potrebbe avvicinare al sogno scandinavo. Anche la demografia non aiuterebbe la nuova Scozia, che ha una percentuale maggiore di persone anziane rispetto al resto del Regno Unito, il che equivarrebbe a maggiori costi futuri per la sanità.
Tutta da considerare poi la questione della valuta: lo Snp vuole un’unione monetaria con Londra con il mantenimento della sterlina. E quindi: separarsi per poi restare alle dipendenze della Banca d’Inghilterra? Conservatori, laburisti e liberaldemocratici sono contrari, ma gli indipendentisti hanno minacciato che senza un’unione monetaria Edimburgo potrebbe rifiutarsi di farsi carico della sua quota di debito britannico, pari a 1.200 miliardi di sterline. Una nuova valuta scozzese, d’altronde, sarebbe così volatile da dissuadere gli investitori, mentre per l’adesione all’euro Edimburgo dovrebbe prima diventare membro dell’Unione Europea, anche questo un capitolo delicato. Londra ha già avvertito Salmond: l’ingresso nell’Ue non sarà automatico, dovrete mettervi in fila e la stessa Bruxelles al momento è fredda. Il difetto della campagna unionista è che a lungo ha cercato più di smontare le promesse indipendentiste che di offrire una maggiore consapevolezza dei benefici del sì. Una campagna tutta connotata in negativo alla quale è mancata una visione di fondo. Lo stesso Cameron ha reagito solo quando i sondaggi sono diventati preoccupanti, con il governo che ha promesso nei giorni scorsi un’autonomia ancora maggiore sulle entrate fiscali. «Hanno fallito nel loro tentativo di spaventare gli scozzesi, ora stanno provando a corromperci, ma non funzionerà», è stata la reazione di Salmond.
Ma se tanti sono i dubbi sulla tenuta del nuovo Stato, perché gli scozzesi potrebbero votare sì alla secessione? Molto ha fatto la crisi economica: basti pensare che sono oltre 800mila i poveri su poco più di 5 milioni di abitanti e pochi pensano che Londra abbia una strategia utile alla creazione di posti di lavoro. Trecentosette anni dopo l’Unione, troppi scozzesi si sentono ancora i cugini sventurati dell’inglese medio. E sentono che ora possono diventare qualcos’altro, qualcosa di meglio, investendo il loro voto e il loro denaro lì dove il loro mito risiede. Per costoro, la stessa “Britishness”, la “britannicità”, è solo una versione egocentrica e allargata dell’“inglesità”. Nulla di più. Dunque,come andrà a finire? C’è chi ricorda il precedente del Quebec canadese, dove gli unionisti nel 1995 alla fine vinsero con il 50,6% di voti, un’inezia. In Scozia la partita è altrettanto aperta: nell’ultimo sondaggio il no è tornato avanti al 53%. Ma il “momentum”, l’inerzia della sfida, è dalla parte degli indipendentisti. Il finale, comunque, è ancora tutto da scrivere. Sarà una lunga notte, giovedì prossimo, con i fantasmi del passato che torneranno a bussare alle porte di Westminster.