Amaggio erano state tre agenzie Onu (Fao, Pam e Ifad) a dare la buona notizia: l’annuale rapporto Sofi sosteneva che il numero di coloro che soffrono la fame è diminuito a livello globale fino a toccare quota 795 milioni. Nei giorni scorsi, sono stati invece gli esperti di Banca Mondiale, con il loro Global Monitoring Report, ad annunciare che le persone che vivono in estrema povertà scenderanno quest’anno a 702 milioni. Solitamente, fame e povertà vanno di pari passo, ma evidentemente le politiche globali sono state così efficaci che in appena 5 mesi si è riusciti a 'salvare' 93 milioni di esseri umani. Al di là delle discrasia dei numeri dei due studi, è la prima volta – dicono gli autori del dettagliato rapporto di Banca Mondiale, pubblicato in collaborazione con il Fondo monetario internazionale – che il numero degli 'estremamente poveri' calerà sotto il 10% della popolazione globale: nel 2012 i 902 milioni di poveri, quelli che vivono con meno di 1,9 dollari al giorno (soglia aggiornata dagli 1,25 dollari del 2005), equivalevano infatti al 12,8% degli esseri umani. Passi da gigante, quelli che starebbe compiendo la comunità internazionale nella lotta contro la povertà. E chissà che entro il 2030 non si raggiunga quell’obiettivo 'fame zero' che si è appena posto l’Onu. Nelle sue stime, la Banca mondiale valuta che la povertà nell’Asia dell’Est e nel Pacifico scenderà al 4,1% dal 7,2% del 2012; in America Latina e Caraibi al 5,6% dal 6,2%; nell’Asia del Sud al 13,5% dal 18,8%; nell’Africa sub-sahariana al 35,2% dal 42,6%. La povertà resta insomma concentrata soprattutto in Africa sub-sahariana e nell’Asia del Sud. «Le nuove stime ci aiuteranno a concentrarci sulle strategie più efficaci per mettere fine all’estrema povertà. Sarà difficile, soprattutto in un periodo di lenta crescita globale, di volatilità dei mercati finanziari, dei conflitti, dell’elevato tasso di disoccupazione fra i giovani e per l’impatto del cambiamento climatico», ha ammesso il presidente della Banca Mondiale, Jim Yong Kim, sottolineando però ottimisticamente che l’obiettivo di mettere fine all’estrema povertà «è a portata di mano». Una crescita economica più sostenuta, investimenti in istruzione e miglioramenti nel welfare possono aiutare, secondo il numero uno dell’organismo, a centrare l’obiettivo del 2030. Bisognerebbe però intendersi sui numeri. È delle scorse settimane la notizia (fonte Unicef) secondo cui mille bambini nigeriani muoiono ogni giorno per cause relative alla malnutrizione. In un anno sono oltre 360mila morti su cui dovremmo interrogarci tutti. E c’è da chiedersi se, tragicamente, come è sempre accaduto in passato, dobbiamo 'ringraziare' anche loro, vittime di una scellerata distrazione internazionale, se è scesa nel rapporto di Banca Mondiale la percentuale dei poveri sul totale della popolazione globale vivente. Si può dire: con un caso singolo non sono lecite generalizzazioni. Ma in Malawi (fonte Programma alimentare mondiale) oltre 2,8 milioni di persone stanno per affrontare la peggiore crisi alimentare della storia del Paese, dopo una tragica alluvione, seguita da una grave siccità, che ha distrutto i raccolti. «La gente ormai cerca tra gli alberi di mango un frutto che aiuti ad avere qualcosa da mangiare – ci scrive da Balaka padre Piergiorgio Gamba, missionario monfortano –. E per la prima volta in modo molto sentito la gente del Malawi si chiede a cosa serve andare per il mondo a raccontare la propria miseria quando nessuno ascolta. Discorsi che si perdono nel nulla in un mondo che non riesce a fare spazio agli ultimi». Chissà se qualche analista di Banca Mondiale, intento nel compilare 300 pagine di report sul calo della povertà nel mondo, si è recentemente fatto vedere nei tanti Malawi di cui è ancora disseminato il pianeta. L'ottimismo di chi, come il capo di Banca Mondiale, sostiene che i numeri «ci dicono che potremmo esser la prima generazione nella storia umana che può porre fine alla povertà estrema», va poi a cozzare contro altri elementi. L’indice Ibrahim – appena elaborato, come ogni anno, dalla Fondazione Mo Ibrahim – sostiene che un terzo dei Paesi africani, 21 su 54, ha visto la sua governance degradarsi dopo il 2011. Sicurezza e stato di diritto, partecipazione e diritti dell’uomo, sviluppo economico sostenibile e sviluppo umano: sono tutti elementi senza un miglioramento dei quali è difficile fare progressi su altri fronti come lotta a fame e povertà. Cosa sta facendo la comunità internazionale – includendo organismi come Banca Mondiale e Fondo monetario internazionale – per sostenere la buona governance in Africa? Altro aspetto cruciale è la crescita economica. Le previsioni del Fmi sono pessimistiche per regioni come l’America Latina, dove un decennio d’oro di forte espansione aveva permesso a 56 milioni di persone di uscire dalla povertà. In generale, sono tutti i mercati emergenti, quelli che durante la crisi del 2008-2009 avevano sostenuto la crescita internazionale, a soffrire. Con la sola eccezione dell’India, i Paesi emergenti stanno pagando il crollo cinese, fin qui motore trainante e spesso sbocco dell’export per le materie prime di molte nazioni. Basti il solo esempio del Brasile, passato nel giro di cinque anni dall’essere il gigante degli emergenti (con una crescita del Pil del 7,5% nel 2010) alla recessione, con un rating del credito che Standard & Poor’s considera spazzatura. Brasilia ha puntato troppo sull’industria metallifera, la soia e l’olio, senza riuscire a diversificare le produzioni. Quanti altri Paesi hanno commesso lo stesso errore? E quanto questo influirà sulla lotta a fame e povertà? Ricette semplici non ne esistono, per quanto almeno in molte regioni africane gli esperti sul campo indichino la necessità di puntare molto di più sull’agricoltura, principale fonte di sostentamento per due terzi della popolazione del continente. Il Pil africano è in questi anni è aumentato, ma la crescita non è stata abbastanza inclusiva da permettere la creazione sufficiente di lavoro. Preferiremmo poter esultare davanti al prossimo rapporto che indica un deciso calo di poveri nel mondo. Ma davanti al boom dei migranti (esclusa la quota di chi fugge da conflitti e persecuzioni) fatichiamo a capire come mai, se il benessere si diffonde sempre più nel Sud del mondo, il numero di coloro che partono per sfuggire a fame e povertà sembri così in aumento.