Sventolano le bandiere blu del Movimento per il Futuro a Beirut e Tripoli, ma per i sostenitori del partito del premier uscente Saad Hariri non c’è niente da festeggiare, perché ieri, 25 gennaio, per il Libano sunnita è stato il "giorno della collera", un’onda tellurica che dal nord alla periferia sud della capitale ha attraversato il Paese, impegnato l’esercito, svuotato le strade, riportando alla memoria i giorni tristemente noti della guerra civile. Motivo della rivolta di piazza, l’incarico per formare il nuovo governo affidato dal presidente Suleiman al magnate delle telecomunicazioni Najib Mikati, sunnita come vuole la Costituzione ma sostenuto dal movimento Hezbollah e dai suoi alleati, gli sciiti di Amal, i cristiani del generale Aoun e i drusi di Walid Jumblatt. Moderato, amico personale di Bashar el Assad e in buoni rapporti con l’Iran, il cinquantacinquenne Mikati (che la rivista Forbes annovera fra i 500 uomini più ricchi del mondo) ha già esperienza di governo, avendo guidato, sia pure per breve tempo, il Libano nel 2005, prima di lasciare il posto a Fouad Siniora. Fortemente sponsorizzato dal "Partito di Dio" dello sceicco Nasrallah, Mikati sembrerebbe perfetto per far uscire il Paese dallo stallo che lo paralizza da quando i ministri Hezbollah e i loro alleati hanno abbandonato la coalizione guidata da Hariri. Il suo è un volto presentabile e al tempo stesso la sua fedeltà a Hezbollah è garantita.C’è qualcosa di sinistramente perpetuo nella storia moderna del Paese dei Cedri e al tempo stesso di sottilmente ingeneroso. Perpetua è la minaccia e non di rado il ricorso alla violenza per risolvere le controversie politiche, convalidando l’antica intuizione di Carl Von Clausewitz («La guerra non è altro che la prosecuzione della politica con altri mezzi») e insieme il sospetto che – con la vistosa eccezione di Israele – la democrazia parlamentare sia tuttora una conquista ancora lontana per il Medio Oriente. Ingeneroso è il destino che ogni tentativo del Libano di avvicinarsi a qualcosa che assomigli a una democrazia matura si scontri puntualmente con il fantasma della guerra civile.Ma se pensassimo che il nome di Mikati sia uscito per caso da quel ribollente calderone etnico-religioso che è il Libano sbaglieremmo di grosso. La sua nomina – ci confermano fonti diplomatiche della capitale – in realtà viene da lontano. Ben prima di mandare in crisi la fragile coalizione di Hariri Mikati era stato consultato dall’opposizione, il suo nome vagliato e pesato, e non tanto a Beirut, quanto a Ryad (dove i sauditi, visti i fallimenti delle mediazioni precedenti, l’hanno considerato "accettabile") e a Damasco (che ne ha approvato la candidatura).In molti – da Hillary Clinton ai cristiani libanesi – gridano al "golpe bianco", addirittura alla "contro rivoluzione dei Cedri" e non hanno tutti i torti. Questa sorta di coup d’État in salsa hezbollah è stato lungamente preparato e solo ora forse diventa più chiara la sospetta condiscendenza con cui l’opposizione accettò, all’indomani delle elezioni politiche del 2009, di far parte di un governo di unità nazionale guidato da Saad Hariri. Lo scopo vero – ora lo si capisce – era sabotare ad ogni costo la diffusione delle temute conclusioni del Tribunale speciale dell’Onu sull’assassinio di Rafik Hariri e insieme riaffermare «con pervicace violenza morale e simbolica», come scrive Michel Tuma sull’autorevole
L’Orient-Le Jour, la crescente forza di Hezbollah nella società libanese.Non a caso forse all’interno di questo silenzioso ingranaggio emerge ancora una volta l’ineffabile Walid Jumblatt (che i libanesi non a caso soprannominano
Valentin le désossé, dal nome di un famoso contorsionista francese), leader socialista, già amico di Damasco, poi nemico giurato e fedele alleato di sunniti e cristiani, oggi di nuovo a fianco dell’opposizione sciita e i cui 11 voti hanno messo in minoranza il gabinetto Hariri.Da domani Najib Mikati comincerà le sue consultazioni. Suleiman gli ha affidato l’incarico di ricomporre un governo di unità nazionale, ben sapendo che Hariri e la coalizione uscente è restia a un’intesa. Ma forse è proprio questa la trappola in cui Teheran, Damasco e il loro braccio armato vogliono che il Libano precipiti.