Le parti in commedia a conclusione di questa Guerra degli 11 Giorni fra Hamas e lo Stato di Israele iniziata con i disordini di Seikh Jarrah a Gerusalemme Est sono in fondo sempre le stesse – ammesso ovviamente che il cessate il fuoco venga rispettato: a Gaza si inneggia come d’uso alla vittoria, spacciando la cessazione delle ostilità come una rovinosa Caporetto di Netanyahu ed esaltando come martiri quei morti spesso incolpevoli, intrappolati dal radicalismo di Hamas e dei tanti jihadismi nella gabbia sovrappopolata della Striscia.
A Gerusalemme, a Tel Aviv, a Lod, a Haifa, a Sderot, a Ashkelon si tira un sospiro di sollievo; «calma per calma» è il consueto patto di scambio fra Hamas e le forze armate israeliane: tu smetti di tirarmi i missili, io smetto di bombardarti. Non ci sono, come si può vedere, reali vincitori in questo conflitto (il dodicesimo in soli settantacinque anni fra arabi, palestinesi ed ebrei), semmai solo due diversi modi di non mostrarsi perdenti. Per Hamas, una sterile affermazione muscolare con il lancio di 4.400 razzi costata 232 morti contro i 12 israeliani.
Per Israele, l’ennesima operazione militare che non muta la sostanza dello scontro. Da parte sua Netanyahu può rallegrarsi per aver azzoppato sul nascere quella coalizione destinata a detronizzarlo dopo dodici anni di ininterrotto potere e l’ennesima elezione senza un chiaro vincitore. Quanto ai palestinesi, grazie anche all’eclissi politica di Abu Mazen e di Fatah in Cisgiordania, il problema resta in tutta la sua irrisolta gravità: finché non ci sarà la soluzione Due popoli, Due Stati invocata fin dal 1947 e ribadita nel 1983 dagli Accordi di Oslo, nulla davvero cambierà.
Quello che cambia invece è il quadro geopolitico. Il cessate il fuoco è stato opera dell’Onu con la mediazione dell’Egitto e del Qatar: brilla la stella di al-Sisi, mentre Joe Biden, ripetutamente chiamato in causa nei giorni scorsi, ha rinunciato a un ruolo di primo piano. Al suo posto arriverà nei prossimi giorni il segretario di Stato Tony Blinken per incontrare i leader delle parti in campo. Per ora dunque l’America è rimasta ai margini delle scelte che contano. Anche perché ne ha già fatta una che può avere conseguenze importantissime sull’intero scacchiere: quella di recuperare l’Iran al consorzio delle nazioni civili, trattando sul nucleare e allentando la morsa delle sanzioni. La dottrina Obama culminata negli accorti di sei anni fa era esattamente questa. Così facendo tuttavia Biden assegna la palma di potenza regionale maggiormente influente a Teheran. Non dunque alla Turchia di Erdogan, come si sarebbe tentati di pensare, nonostante gli sforzi, la tenacia e soprattutto l’aggressività del suo presidente, ma proprio a quell’Iran che fra meno di un mese andrà a elezioni e che Washington vorrebbe rimodellare in senso occidentale quanto basta perché si allontani dall’orbita russa.
Quello stesso Iran che mentre da un lato giura solennemente di non ambire a diventare un membro del club atomico, dall’altro mantiene finanziariamente e rifornisce di armi sofisticate Hamas, così come ha finanziato e armato Hezbollah in Libano. Per questo l’agreement americano con Teheran è un dito nell’occhio nei leader di quell’area che si riconosce negli Accordi di Abramo fra Israele e gli Emirati del Golfo (Qatar escluso): eccessive concessioni agli ayatollah – si mormora a Gerusalemme – provocheranno un netto indebolimento di quel baluardo sunnita nato proprio su impulso di Riad e di Donald Trump per contrastare l’espansionismo iraniano, che con quel corridoio sciita che si stende da Teheran al Mar Mediterraneo passando per l’Iraq e la Siria garantisce agli ayatollah una fascia di controllo che taglia in due la vecchia carta geografica del Medio Oriente spingendosi fino allo Yemen. Più che un effetto collaterale del conflitto fra Hamas e Israele, si direbbe un’autentica spina nel fianco.