Giovedì prossimo, nel giorno in cui si riunirà la direzione nazionale del Partito Democratico per sancire, viste le prese di posizione delle ultime ore, in particolare di Matteo Renzi, l’impossibilità in una trattativa per la formazione di un governo di coalizione con il Movimento Cinque Stelle, saranno ormai trascorsi 60 giorni dalle elezioni legislative del 4 marzo. L’attuale crisi di governo si avvierà così a diventare la più lunga fra le 18 crisi post-elettorali (un governo dovrebbe nascere entro il 4 maggio, quando la crisi attuale avrà eguagliato i 61 giorni della crisi post-elettorale del 1979, che portò alla formazione del governo Cossiga). Altre due crisi postelettorali – quella del 1992 (83 giorni per formare il I governo Amato) e quella del 2013 (62 giorni per formare il governo Letta) – sono durate di più, ma solo per via dell’«ingorgo istituzionale»: in quei casi, infatti, occorreva anche eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Ma cosa si nasconde dietro questi numeri e dietro la difficoltà di dare uno sbocco parlamentare alle elezioni del 4 marzo? C’è qualcosa oltre i tatticismi dei leader politici e oltre la difficoltà di metabolizzare quello che senza dubbio è stato un terremoto elettorale? Una possibile risposta a questa domanda sta in un cortocircuito di carattere politicocostituzionale. Due logiche fra loro contrapposte stanno bloccando la soluzione della crisi: una cultura politica maggioritaria e avversariale, prigioniera del vecchio obiettivo di 'vincere le elezioni' e di formare un governo 'dei vincitori', prodotto immediato del voto dei cittadini; e un assetto multipartitico (tripolare con frammentazioni interne al polo principale, quello di centrodestra), nonché una legislazione elettorale proporzionale (ancorché corretta con un non marginale numero di collegi uninominali) che tende a imporre transazioni e accordi post-voto per dar vita a un governo di coalizione. Certo, si potrebbe liquidare questa chiave di lettura riportando l’attenzione sulle incompatibilità fra Renzi e Di Maio o fra Salvini e Boschi o fra Berlusconi e Di Battista. O magari sottolineare la difficoltà di armonizzare partiti-algoritmo e partiti tradizionali, forze antisistema e partiti cartello espressione dell’establishment. Ma forse si resterebbe alla periferia della questione centrale. Che poi è la stessa che divide l’Italia dagli anni Ottanta: l’alternativa fra una democrazia proporzionalistica con assetto multipartitico e necessità di coalizioni fra diversi e una democrazia maggioritaria in cui a scegliere sono di norma gli elettori, interrogati da un sistema elettorale 'manipolativo', e premiante la forza politica (o la coalizione di forze politiche) che ottiene più consensi e che pertanto «la sera delle elezioni» produce un vincitore. L’Italia è passata dal primo al secondo sistema nel 1993-94 e vi è rimasta fino al novembre 2011, quando la grande crisi impose la transazione fra avversari guidata da Mario Monti, cui è seguita la fine del bipolarismo e, dopo le elezioni del 2013, la caduta della legislazione a torsione maggioritaria in seguito a due sentenze della Corte costituzionale, intervallate dal fallimento della riforma costituzionale Renzi-Boschi che aspirava (magari anche confusamente) a chiudere la transizione italiana.
Ne risulta che oggi siamo in una terra di mezzo, in cui gli attori politici sono strattonati fra logiche diverse: patteggiare con i propri arci-nemici o tornare (magari inutilmente) davanti agli elettori? E mentre a livello nazionale la legge Rosato ha sanzionato il ritorno a regole proporzionalistiche già risultanti dalle due sentenze della Consulta, le regole che producono un vincitore «la sera delle elezioni» restano in vigore a livello regionale e comunale, continuando a strutturare una mentalità poco consona ad accordi post-elettorali, assumano essi la forma del 'contratto di coalizione' austrotedesco o quella dei vecchi e meno formali accordi cui ci aveva abituato la Repubblica dei partiti (che aveva anche inventato un organo – il Consiglio di Gabinetto – che doveva essere la cabina di regia della coalizione e persino le 'verifiche' periodiche che ora vengono riproposte come una novità dalla bozza di contratto presentata dagli esperti vicini ai Cinque Stelle).
Le prossime settimane ci diranno se dall’attuale cul-de-sac si uscirà con un governo politico, con un governo balneare (altra nobile istituzione della Repubblica dei partiti per cercare con più calma un accordo impossibile subito) o con un ritorno alle urne prima o dopo le ferie. Ma la questione di fondo – democrazia consensuale o democrazia maggioritaria – che divide l’Italia come un super-derby dai tempi di Craxi e De Mita è ancora tutta lì. Ci sono – per carità – forme intermedie (come per esempio, il cancellierato tedesco, che produce governi di coalizione, e però stabili per tutta la legislatura), ma il gran nodo da sciogliere resta evidente. O si rivaluta e attualizza la cultura degli accordi necessaria all’attuale assetto proporzionalistico o si modificano di nuovo le regole elettorali perché accompagnino efficacemente una cultura politica avversariale e maggioritaria.