Questa domenica, con una coda nella prossima, ci attendono vari appuntamenti elettorali – presidenziali in Francia, parlamentari in Grecia, regionali in Nord Reno-Westfalia (oltre alle amministrative parziali in Italia) – il cui esito è seguito con apprensione, speranza, timore in tutta Europa. In gioco c’è ben di più che la scelta del nuovo inquilino dell’Eliseo, del governo del più popoloso Land tedesco o del premier della prima "democrazia commissariata" da parte dell’Unione. Qualunque sia l’oggetto formale della votazione, quel che appare sotto giudizio è questa Europa, il modo di concepirla e le modalità di governarla. È soprattutto guardando a Parigi, dove la vittoria di Hollande appare probabile, che molti attendono quel segnale forte di discontinuità rispetto a un’Europa incatenata alle ossessioni tedesche. È paradossale, ma proprio per l’incubo tedesco di rivivere il trauma dell’iperinflazione di 80 anni fa, rischiamo di non essere in grado di fare nulla rispetto ai ben più concreti incubi di questi ultimi 4 anni. Con la necessaria prudenza, persino il presidente della Bce Mario Draghi ha ricordato appena due giorni or sono a Barcellona, che «crescita e rigore sono compatibili», anche se mentre il secondo è perseguito quasi con meccanica ferocia, della prima non si scorge traccia. Ha proseguito poi il governatore elogiando, con involontaria ironia, gli «straordinari progressi di Italia e Spagna», quantificabili, per quest’ultimo Paese, in un disoccupato ogni quattro spagnoli e uno ogni due se sotto i 25 anni. Se questo è il costo dei "progressi", evidentemente c’è qualcosa che non funziona nella terapia, che troppe volte assomiglia a un salasso somministrato a un organismo già anemico ed esangue. Piaccia o no, questo è il feeling crescente in Europa, e un cambio della guardia all’Eliseo unito magari a una sconfitta del partito di Frau Merkel in Renania potrebbe rendere quest’ultima maggiormente malleabile, tanto più che anche l’Olanda è destinata a tornare presto alle urne, dopo che la maggioranza di governo si è sfaldata proprio sulle misure improntate al teutonico rigore. Quello che occorre, al di là di una concezione meno masochista dell’equilibrio economico, è un complessivo ripensamento del progetto Europeo, che appare essersi bloccato durante lo scorso decennio. È come se la
War on terror – il decennio post 11 settembre, per intenderci – abbia arrestato il processo di riflessione e adattamento dell’Europa rispetto alle sfide che l’allargamento e il sostanziale completamento della globalizzazione imponevano. Quella solidarietà che l’Europa era stata capace di dimostrare nel suo momento più alto, nella luminosa Berlino del 1989, si è smarrita nella meschina pignoleria della grigia Berlino del 2012. È mancata la Politica in Europa in questo decennio, la sola che avrebbe potuto almeno tentare di disegnare un futuro diverso e meno cupo. Mai come in questa terribile temperie se ne avverte l’assenza e la necessità, proprio per poter produrre quella discontinuità altrimenti impossibile anche solo da immaginare. Può apparire difficile l’elogio della politica in un Paese come il nostro, dove si scomunica con cipiglio severo la cosiddetta antipolitica di qualche guitto, dimenticando che la vera antipolitica è da decenni perpetrata da partiti lestissimi a cambiar nome e logo, ma incapaci di cambiare la loro vera natura. D’altronde, non saranno né il perbenismo, ne il populismo demagogico e neppure la "tecnolatria" a salvare l’Europa la Grecia o l’Italia. La sensazione è che, al di là di attribuire, a torto o a ragione, la responsabilità della crisi o dell’inadempienza rispetto ad essa a chi li governa, la maggior parte dei cittadini europei imputi alle sue classi dirigenti uno straordinario vuoto propositivo, e rischi di "votare con i piedi", disertando le urne. Staremo a vedere che succederà. Ma è difficile pensare che dalla settimana prossima tutto possa proseguire come prima in Europa.