sabato 8 gennaio 2011
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Domani sarà una giornata memorabile, una data che i popoli del Sudan Meridionale non potranno dimenticare. Si vota infatti, fino al 15 gennaio, per l’autodeterminazione di quelle regioni che dall’agosto del 1955, prima ancora che fosse proclamata l’indipendenza dalla corona britannica, si sollevarono contro l’oligarchia islamica che stava prendendo il potere. Parte della responsabilità, secondo alcuni studiosi, ricadrebbe sugli inglesi che già nel lontano 1947, durante la Conferenza di Juba, esercitarono forti pressioni perché il Sud Sudan, a matrice animista e cristiana, si unisse politicamente al Nord musulmano. Sta di fatto che questo Paese, il più vasto dell’Africa, è quello in cui si è combattuto il più lungo conflitto post-coloniale del continente. Se infatti si sommano le due grandi guerre civili – la prima ribellione, denominata "Anya Nya I" (1955-1972), e la seconda, "Anya Nya II" (1983-2005) – risultano quasi quarant’anni di ostilità, con un bilancio catastrofico. Solo nel secondo conflitto persero la vita almeno 2 milioni e mezzo di persone. Nel frattempo, come se non bastasse, nel 2003 si è aperto un nuove fronte, nella regione del Darfur, dove si continua a combattere. Ma tornando alla consultazione referendaria, è scontato che sarà un trionfo plebiscitario dei secessionisti, i quali sono pronti a riprendere le armi se Khartoum dovesse opporsi. Ma per comprendere la portata di questo storico evento, occorre tenere presente le ragioni del dissidio. Se da una parte è vero che la decisione del regime nordista di estendere al Sud la sharìa, la legge islamica, determinò nell’83 lo scoppio delle ostilità, dall’altra risultano determinanti anche altri fattori. Anzitutto economici, legati allo sfruttamento del bacino petrolifero presente nei territori meridionali, e di rincalzo anche cause politiche ed etniche. È bene ricordare che gli ex ribelli dell’Esercito di Liberazione Popolare del Sudan (Spla) si qualificarono, all’inizio della lotta armata, durante la Guerra Fredda, come movimento d’ispirazione marxista-leninista, con l’appoggio incondizionato dell’allora dittatore etiopico Menghistu Haile Mariam. Fu solo dopo il crollo del Muro di Berlino che il colonnello John Garang, il leader dello Spla deceduto in circostanze misteriose pochi mesi dopo l’accordo di Nairobi, diede al suo movimento armato una nuova immagine, con l’intento di offrire alla lotta armata una connotazione religiosa in difesa dei cristiani del Sud. Una presenza, quella cristiana, comunque minoritaria in un territorio fortemente animista (80-85%). Una cosa è certa: tra Nord e Sud sono ancora molti i nodi da sciogliere, a partire dall’incapacità di raggiungere un’intesa soddisfacente sui confini, a cui bisogna aggiungere le altre controversie irrisolte riguardanti il petrolio, le risorse idriche e i debiti. Questo referendum è visto con preoccupazione dall’Unione Africana. Il timore è che l’indipendenza del Sud Sudan possa innescare una reazione a catena coinvolgendo anche altri Paesi, ad esempio la Nigeria, con una morfologia "etnico-geografica" simile a quella sudanese. Premesso che i contesti sono diversi e che esiste già un precedente – la secessione dell’Eritrea dall’Etiopia all’inizio degli anni ’90 – la questione dell’intangibilità dei confini africani sarà sempre controversa in un continente che ha ereditato il modello statuario delle ex potenze coloniali fissato al Congresso di Berlino. A questo punto è chiaro che Khartoum non può continuare a fare orecchie da mercante, considerando che gli Stati Uniti giudicano la pacifica soluzione del referendum come prioritaria nella loro agenda africana. Giù il cappello, comunque alla società civile sudanese, Chiesa cattolica in testa, per l’impegno profuso in questi anni a favore della pace. La vera incognita, guardando al futuro, è rappresentata dagli stessi sudanesi che devono imparare a convivere tra loro e ad autogovernarsi. Sarà la storia a giudicare.
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