Gentile direttore, proprio perché ho l’impressione di essere fuori dal mondo, desidero sottoporle alcune mie riflessioni a riguardo dell’ultimo fatto oggetto di contrastanti opinioni giornalistiche. Purtroppo ancora una volta mi deprime l’uso strumentale che viene fatto di un evento tristissimo: l’assassinio del carabiniere Mario Cerciello. Perché i media non riescono, almeno fino all’estremo addio alla vittima, a offrire a noi come oggetto di riflessione solo la sua persona e la tragicità del fatto occorsole? Perché ci si deve distrarre con possibili (a volte mai verificati) risvolti giudiziari o ipotesi di indagine? Perché questa corsa “al primo che indovina”? Nel caso specifico: perché le varie ipotesi rivelatesi prive di fondamento non si poteva aspettare a pubblicarle dopo la verifica dell’indagine? Le stesse e la fotografia del giovane americano da dove sono arrivate alla stampa? Dalla caserma o dalla procura? Ad opera di chi? Per quale scopo? Questa smania di tempestività, che può disturbare la ricerca della verità, operazione a tutela delle vittime e degli stessi rei, “cui prodest”? Caro direttore, non posso non accostare questo modo di procedere con quello dell’inizio degli anni 90 del connubio stampa-magistratura. Allora il direttore di un periodico alla domanda «Come fanno tutte queste anticipazioni ad arrivare ai giornali prima che agli in- teressati?», rispose sottovoce: «Ogni magistrato in auge ha il suo giornalista cui passare le notizie sotto banco e ogni giornalista ha il suo magistrato». Ed era sotto gli occhi di tutti: alla televisione fu fatta la stessa domanda al procuratore capo di Milano, che rispose che il problema era oggetto di indagine... Che io sappia la stampa non ha mai pubblicato alcun risultato di quell’indagine. Leggo nel commento del professor Chiavario pubblicato su “Avvenire” del 30 luglio 2019: «Episodi come questo parrebbero esemplari per raccogliere un’unanime condanna, sul piano morale, dei cedimenti alla logica del “tutto è permesso” quando si ha a che fare con dei criminali». Non posso che condividere e aggiungere: ...e unanime condanna anche sul piano legale (a ogni livello, minimo e massimo). Ritengo che l’abbassamento del senso comune di legalità nel nostro Paese sia dovuto meno alla grave trasgressione di un comune cittadino e molto più alla pur piccola trasgressione di un tutore della legge o amministratore della giustizia (specie se ad alto livello). Il perseguimento dei risultati a ogni costo produce questa distorsione. È il machiavellico principio «il fine giustifica i mezzi». La ringrazio per l’attenzione e per un eventuale riscontro, magari a opera di un suo collaboratore. Con rinnovata stima
Roberto Colosio
Il direttore mi chiede di rispondere alla sua lettera, gentile signor Colosio, e lo faccio volentieri. Innanzi tutto vorrei rassicurarla: lei non è «fuori dal mondo ». Anzi, per quanto riguarda i rapporti “privilegiati” tra alcuni uffici giudiziari e alcuni giornalisti, da attento lettore di Avvenire saprà che su queste pagine li abbiamo più volte criticati, soprattutto quando si riducono a un’acritica pubblicazione di fiumi di trascrizioni di intercettazioni investigative, non di rado incomprensibili fuori dal loro giusto contesto (quello di un’indagine giudiziaria) e pertanto potenzialmente fuorvianti. Forse non saremo «in auge», ma qui ad Avvenire abbiamo fatto una scelta diversa e ben precisa, rivendicata anche in occasione di confronti pubblici sul tema: non ci facciamo megafono o bacheca di nessuno e ci sforziamo di non emettere sentenze a mezzo stampa. Di certo, però, non nascondiamo le notizie ai nostri lettori. Non saremmo giornalisti buoni e onesti se lo facessimo. Direi che non saremmo giornalisti affatto. E nella tragica vicenda del compianto vicebrigadiere dei Carabinieri Mario Cerciello, oltre al fatto principale e straziante dell’omicidio, sono emersi altri aspetti che non potevano essere taciuti. Non si vuole 'distrarre' il lettore, per usare il verbo da lei scelto, quando lo si informa che in un ufficio dell’Arma un fermato è stato ammanettato e bendato. Come giustamente ha ricordato il professor Chiavario su queste pagine, in uno stato di diritto si rispetta la legge. Sempre. Anche al cospetto dei criminali, dei colpevoli, dei sospettati di delitti odiosi. E a maggior ragione devono rispettarla coloro che sono chiamati, per professione, a farla rispettare agli altri. Senza contare che quel trattamento, ora, rischia di pregiudicare il processo a coloro che, fin qui con ogni evidenza e in base anche alla confessione di uno dei due, sono colpevoli dell’omicidio del carabiniere. Come vede, la foto era una notizia in sé. Così come lo è il fatto che, a distanza di diversi giorni, in questa storia «ci sono ancora punti oscuri», per dirla con il procuratore vicario di Roma Michele Prestipino. Perciò, come è doveroso per gli inquirenti illuminare quei punti, lo è per la stampa non allentare l’attenzione. «La democrazia muore nell’oscurità», hanno sintetizzato i colleghi del Washington Post. È di ieri la notizia che un carabiniere risulta indagato per aver scattato quella foto. Ora si cercherà di capire se l’ha diffusa lui stesso o altri. L’immagine è arrivata ai media dopo essere transitata per un gruppo social chiuso. Non si sa se chi l’ha divulgata volesse denunciare una procedura gravemente non conforme alle regole oppure vantarsene. Si può soltanto sperare che la prima ipotesi sia quella corrispondente alla realtà. La saluto cordialmente.