giovedì 31 gennaio 2013
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Ecco una bella domanda cui mi piacerebbe che qualcuno rispondesse prima o poi: quanti sono mediatamente gli italiani che, nel divampare d’una campagna elettorale, si sottraggono fermamente al questionario del gentile sondaggista che li ha contattati? Ipotizzo – e lo spero fervidamente – che non siano pochi. Terranno conto, i sondaggisti, nelle loro sofisticate elaborazioni, dell’incidenza di questa quota di riluttanti? Quando immagino invece tutti quelli che ai sondaggi si sottopongono e al tipo di domande che vengono loro rivolte, non posso non ritornare con la memoria a una memorabile scena dell’ultimo romanzo di Sciascia, Una storia semplice (1989), quando cioè il vecchio professore Carmelo Franzò, amico della vittima di turno, viene interrogato da un suo vecchio alunno che è diventato magistrato, malgrado i tanti tre ricevuti nei componimenti di italiano, per il fatto che regolarmente copiava. I due non si vedono da molti anni e il magistrato ha come un sussulto d’orgoglio: «"L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica"». La risposta è tanto feroce quanto disincantata: «"L’italiano non è l’italiano: è il ragionare" disse il professore. "Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto"». Lo confesso: è proprio a questa lingua italiana sempre più sbrigativa e semplificata – e al buon ragionare che con quella lingua sciascianamente s’identifica – che mi viene da pensare con pena ogni volta che m’imbatto in certi sondaggi e nelle domande che li strutturano. Come quella di qualche giorno fa in cui, esplosa la questione degli "impresentabili," si chiedeva agli italiani se preferissero avere nelle liste elettorali «persone per bene»: che è come domandare se si prediliga, per un picnic in campagna, una giornata di sole rispetto a una di pioggia torrenziale. Ma si possono fare domande del genere? Tra parentesi: non riesco davvero a capire, proprio in gloria del buon italiano (e del ragionare), che cosa significhi il fatto che l’80% degli intervistati si sia orientata favorevolmente per le liste cosiddette pulite: a meno che non si voglia dedurre che il restante 20% gradisca l’inclusione massiccia di persone, mettiamola così, per male. Chiediamocelo: che classe politica sarebbe quella che costruisse se stessa sull’esclusiva base di un certo (e, purtroppo, prevalente) tipo di sondaggi? Una classe politica che bracca il presente, mentre si sintonizza sulle idiosincrasie volatili delle masse elettorali, vellicandone vizi e pregiudizi, riaggiustando all’uopo i programmi per come nell’immediato conviene. Una classe politica incapace di immaginare un futuro che non sia il mero domani mattina del consenso. Una classe politica di spettacolo, magari anche felicissimo, ma non certo di governo: sempre meno dirigente, ma sempre più digerente. Saremmo insomma, col trionfo dell’etica del sondaggio, a una politica fondata sugli umori, non certo sui valori. Se per rappresentare la società può valere ancora la metafora del corpo, una classe politica così non potrebbe candidarsi a rappresentarne la mente, ma qualche altro organo che non dico. Già, la mente: Platone fece presto dolorosa esperienza, a Siracusa, di che cosa possa accedere quando sono i filosofi a governare. Mi riesce assai difficile credere che da certi, diffusi e servizievoli laboratori di statistica possa uscire qualcosa di meglio.
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