martedì 13 aprile 2021
Dalla chiusura della fase giustizialista alla prospettiva delle prossime presidenziali
L’inchiesta «Lava Jato» era stata animata dalla volontà di combattere la corruzione o da quella di mettere all'angolo Lula? Oggi il Paese cerca una nuova stabilità

L’inchiesta «Lava Jato» era stata animata dalla volontà di combattere la corruzione o da quella di mettere all'angolo Lula? Oggi il Paese cerca una nuova stabilità

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«Ho messo fine a Lava Jato perché non c’è più corruzione nel governo». Con queste parole, il 7 ottobre scorso, Jair Bolsonaro ha anticipato l’imminente fine della «maggior operazione anti-tangenti della storia », come l’avevano definita i media. Qualche mese dopo, il procuratore generale Augusto Aras – designato dal presidente – ha annunciato lo scioglimento del pool di Curitiba: i suoi nove magistrati sarebbero stati riassegnati all’unità specializzata nel contrasto alla criminalità organizzata. E, così, è accaduto. Dal 3 febbraio, ha chiuso i battenti la squadra che ha fatto tremare governanti e imprenditori, galvanizzato l’opinione pubblica, infiammato i dibattiti fra esperti, ispirato perfino una serie di Netflix. Per una bizzarra coincidenza, lo stesso giorno, la Camera ha eletto come presidente, con il sostegno dell’esecutivo, Arthur Lira, indagato per mazzette proprio nell’ambito di Lava Jato.

Il tutto si è consumato in silenzio, senza il minimo sussulto da parte di quelle migliaia e migliaia di brasiliani che, fino a qualche anno prima, avevano inondate le piazze con in mano la foto dell’uomo simbolo del pool di Curitiba, Sergio Moro. Il paradosso è solo apparente. Per una buona parte di brasiliani che ci aveva creduto, Lava Jato e l’entusiasmo da essa provocato avevano iniziato a spegnersi già da tempo. Almeno da quando il neoeletto Bolsonaro aveva offerto l’incarico di ministro della Giustizia a Moro. La ragione della scelta sarebbe stata spiegata dallo stesso leader un anno dopo, l’8 novembre 2019: «Se non avesse compiuto la sua missione, non sarei qui». Contrariamente alle intenzioni, quelle parole davano concretezza ai dubbi sollevati prima dalla nomina, poi dalla diffusione – a opera del sito di inchiesta 'The Intercept' – di una serie di messaggi Telegram scambiati fra gli inquirenti di Curitiba. In essi, Moro – magistrato giudicante – sembrava 'imbeccare' i pm dell’accusa sul modo di incalzare gli imputati. Soprattutto l’incriminato 'numero uno': Luiz Inácio 'Lula' da Silva, ex presidente e emblema del centro-sinistra latinoamericano, escluso dal voto del 2018 proprio per le condanne inflittegli nell’ambito di Lava Jato.


L’operazione «mani pulite» ha avuto il merito di toccare un nervo da sempre scoperto: il giro di mazzette che lega manager e politici. Ma il rientro dagli eccessi non è semplice

Il 'grande repulisti' era stato animato dalla volontà di combattere la corruzione o da quella di mettere all’angolo Lula e il suo Partido dos trabalhadores (Pt)? Favorito nei sondaggi, quest’ultimo ha gridato fin dall’inizio al «furto delle elezioni ». Il rivale finiva per dargli ragione. In realtà, nessuno può dire con certezza quale sarebbe stato l’esito della competizione. Il goffo intento di Bolsonaro di 'arruolare' i giudici dalla sua parte squarciava il velo su un problema reale: la crescente politicizzazione dei poteri di garanzia. Lava Jato ha avuto il merito di toccare un nervo da sempre scoperto del Brasile contemporaneo: il giro di mazzette che lega manager e politici. Una tendenza alimentata dall’estrema frammentazione dello spettro politico per cui nessun presidente eletto possiede i numeri per governare. Il negoziato legittimo s’è, nel tempo, trasformato in un traffico di favori e influenze. Colpa in cui sono incorsi tutti i partiti. E a cui il Pt s’è rapidamente adeguato: una delusione cocente per quanti avevano creduto alle sue promesse di rinnovamento.

Lava Jato ha costretto i brasiliani a fare i conti con questa drammatica realtà. Senza, tuttavia, mutarla, dati gli scandali in corso e che coinvolgono perfino i figli – nonché consiglieri – dell’attuale presidente. Gli eccessi degli 'Intoccabili' – come venivano chiamati Moro e i suoi collaboratori – con i processi in diretta televisiva, gli interrogatori spettacolo, le trascrizioni delle testimonianze divulgate con sospetto tempismo, ha avuto un ruolo centrale nel progressivo coinvolgimento delle istituzioni nell’area politica. Fenomeno di cui il bolsonarismo e la sua feroce anti-politica sono, allo stesso tempo, risultati e acceleratori. Lo conferma l’attuale crisi militare. Il 29 marzo, il leader in carica ha 'silurato' il ministro della Difesa, Fernando Azevedo, colpevole di una cauta presa di distanza dal negazionismo presidenziale sul Covid. Il giorno successivo, i vertici delle Forze armate – i generali Edson Pujol (Esercito), Ilques Barbosa Junior (Marina) e Antonio Carlos Bermudez (Aviazione) – hanno dato le dimissioni. È stata la prima volta dalla dittatura. Il gesto plateale è il risultato della pressione esercitata da Bolsonaro al fine di legare le caserme al proprio progetto politico. Non è stato il primo a farlo. Già il predecessore, Michel Temer – principale artefice dell’impeachment alla presidente Dilma Rousseff, eletta dopo Lula e come lui del Pt, in piena euforia lavajatista – aveva rotto la regola non scritta dal ritorno della democrazia di tenere fuori le Forze armate dall’esecutivo, con la nomina di un militare alla Difesa. Con l’esponente dell’ultradestra, però, i ministri in divisa sono diventati dieci. Non solo: 92 militari dirigono imprese statali – tra cui il colosso petrolifero Petrobras – e 6mila ricoprono incarichi all’interno dell’amministrazione pubblica.

Il matrimonio d’interesse dei militari con l’ex colonnello, però, ha finito per trasformarsi in una relazione tossica. Con la pandemia fuori controllo – tra ospedali che scoppiano, cimiteri intasati, scandali sulla gestione dei vaccini e dell’ossigeno –, il prezzo del sostegno sta diventando troppo salato. Intrappolati nel labirinto bolsonarista, i generali meno radicali cercano di ripristinare la 'giusta distanza'. In un certo senso, anche la magistratura ha adottato una strategia simile. Con un sorprendente ribaltamento delle decisioni precedenti, due sentenze della Corte Suprema hanno restituito – seppur in via temporanea – i diritti politici a Lula e dichiarato 'parziali' le condanne di Moro.


Il presidente in carica diviso dall’ansia di conquistare il centro politico e di rafforzare l’alleanza con l’esercito: un rischio elevato

Troppo tardi per rimettere le istituzioni 'al proprio posto'? Molto dipenderà dalla screditata politica e dalla sua capacità di costruire un progetto condiviso in vista delle presidenziali del 2022. Le variabili sono tante. Ancora sub iudice – nel senso letterale del termine dato che la Corte Suprema darà una risposta definitiva nelle prossime settimane –, la possibile candidatura di Lula ha spinto la destra moderata a svincolarsi da Bolsonaro, deciso, invece, a ottenere un secondo mandato. Quest’ultimo sembra in bilico tra l’ansia di trovare sostegni nel Centrão – settore conservatore chiave nel Congresso per evitare l’impeachment – e la tentazione di rivolgersi al «mio esercito», come ha definito i militari. La sostituzione dei generali riluttanti con fedelissimi rientra nella strategia. Il gioco è, tuttavia, ad alto rischio: il connubio con la politica – come ripete spesso l’esperto Roberto Martins Filho – crea crepe profonde nelle Forze armate, con effetti difficili da prevedere. E l’emergenza sanitaria – con il suo bollettino quotidiano di oltre 3mila morti – rende tutto più instabile.

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