lunedì 9 dicembre 2024
Sostenere la decarbonizzazione conviene anche ai Paesi ricchi. Tra fondi speculativi e società private il credito è frammentato. Pochi i 300 miliardi di dollari stanziati a Baku
Agricoltori a Johannesburg, in Sudafrica

Agricoltori a Johannesburg, in Sudafrica - Reuters

COMMENTA E CONDIVIDI

Mettiamola così: difficilmente lo faremo perché è giusto, perché è eticamente insostenibile che quattro quinti della popolazione mondiale sopporti le peggiori conseguenze del cambiamento climatico. E in buona parte senza avervi nemmeno contribuito. Aiutiamoli, allora, (anche) perché ci conviene. Perché rimandare le riparazioni costa molto più che ignorarle. Perché, egoisticamente parlando, a rischio non c’è solo qualche atollo sperduto nell’oceano, ma città europee ed americane, sommerse da allagamenti improvvisi e colpite da ondate di calore e siccità devastanti.

La Cop29, deludendo quanti speravano in contributi maggiori sulla direttrice Nord-Sud del mondo, ha evidenziato quanto l’attuale intreccio di interessi geo-economici metta il freno a mano ai cambiamenti veri, quelli necessari a contenere entro 1,5 gradi centigradi l’aumento della temperatura terrestre. Convitato di pietra, ai negoziati di Baku, è stato il nodo del debito dei Paesi in via di sviluppo, che poco o nulla possono contribuire alla sfida climatica senza il sostegno del mondo ricco. In vista del Giubileo che si apre il 24 dicembre, papa Francesco ha esortato a cancellare o almeno ridurre il debito estero degli Stati più vulnerabili, «tenendo presente che il debito ecologico e il debito estero sono due facce di una stessa medaglia che ipoteca il futuro». Una remissione che appare oggi più difficile anche a causa della struttura del debito che strozza le economie dei Paesi fragili, ma che di fatto converrebbe anche ai Paesi ricchi: sostenere economicamente la decarbonizzazione degli Stati fragili, liberando risorse tramite la cancellazione del debito, eviterebbe futuri danni climatici e costi di adattamento anche da noi. Perché potremo tagliare le nostre emissioni climalteranti quanto vogliamo – e spesso non lo vogliamo, perché nel breve termine ci costa –, ma se non aiutiamo tutti a fare la loro parte sarà stato uno sforzo inutile.

Secondo un rapporto dell’Unctad, 54 Paesi in via di sviluppo, in gran parte in Africa, spende oggi in interessi netti oltre il 10% delle proprie entrate e 3,3 miliardi di persone vivono in Paesi che spendono più in interessi (70 dollari pro capite annui in Africa) che in salute (39 dollari) e in istruzione (60 dollari). Nel 2019 la spesa pubblica sugli interessi del debito nei Paesi in via di sviluppo era del 2,4% del Pil, superiore dunque a quanto gli Stati più vulnerabili possono investire per il clima (2,1%). E questo prima della pandemia di Covid e della crisi del debito dell’ultimo biennio.

Il totale di interessi netti dei Paesi in via di sviluppo ha toccato gli 847 miliardi di dollari nel 2023, con un aumento del 26% rispetto al 2021. Per questi Paesi, la scelta, ogni giorno, è se fornire faticosamente servizi di base ai propri cittadini o riuscire a fare qualcosa sul fronte dell’adattamento al cambiamento climatico e del taglio delle emissioni inquinanti: non hanno risorse sufficienti per tutto. Senza contare che i tassi di interesse a cui il Sud del mondo si indebita non hanno paragoni con quelli dei Paesi ricchi: un bond decennale africano rendeva in media, tra il 2020 e il 2024, il 9,8%, contro il 6,8% di un bond dell’America Latina e del 2,5% di un bond Usa.

Molto, nella trappola del debito in cui si ritrovano i Paesi fragili, ha a che fare con la struttura stessa del loro debito. In termini assoluti, il totale del debito pubblico africano non è così alto: si parla di 1,8mila miliardi di dollari, rispetto ad esempio ai 2,9mila miliardi della Germania. Anche il rapporto debito-Pil in 49 Paesi africani è più basso rispetto a quello degli Usa, dell’Italia, del Giappone o della Grecia. Eppure, otto Paesi su nove in situazione di “stress finanziario”, secondo il Fmi, sono africani. Hanno debito, non hanno risorse o prospettive produttive con cui farvi fronte. Africani, allo stesso tempo, sono secondo l’Uneca 17 dei 20 Paesi più minacciati dal cambiamento climatico.

A Sud del Sahara il debito pubblico è dovuto in gran parte a finanziatori internazionali e denominato al 70% in dollari (e al 14% in euro). Ciò pone questi Paesi fortemente subordinati alla fluttuazione dei tassi di cambio nei confronti delle valute forti. C’è un altro elemento, però, che pone serie difficoltà, soprattutto nel caso diventino necessarie ristrutturazioni del debito, come in questi anni di default. Se ancora a inizio millennio gran parte del debito dei Paesi in via di sviluppo era detenuto dai membri del Club di Parigi – sostanzialmente i 22 Paesi più ricchi –, oggi il 61% del debito dei Paesi in via di sviluppo è in mano al settore privato: hedge fund, società di investimento, banche commerciali internazionali. Solo il 14% del loro debito è invece detenuto da creditori bilaterali. I risultati delle ristrutturazioni diventano, così, più difficili e i tempi si allungano: per venire a capo del default dello Zambia sono stati necessari quasi quattro anni. Gli attori privati del sistema finanziario internazionale difficilmente accettano riduzioni degli importi loro dovuti e complicato appare il tema della cancellazione del debito se si tiene conto di quanto frammentato sia oggi il panorama del credito.

Ancora: solo 25 dei 100 miliardi annui di aiuti per il clima stanziati dai Paesi ricchi nel 2022 sono arrivati ai Paesi poveri sotto forma di sovvenzioni, il resto è stato costituito da finanziamenti privati e da prestiti a determinate condizioni. Tramontata l’epoca d’oro (se mai c’è stata) degli aiuti, i Paesi ricchi sono sì disposti a tendere una mano, ma non troppo. I contributi dell’Italia sono addirittura scesi dallo 0,33% del Reddito nazionale lordo destinato all'Aiuto pubblico, allo 0,27% nel 2023, mentre il Fondo italiano per il clima fa da serbatoio al Piano Mattei avviato nei mesi scorsi con i primi progetti pilota.

«Quando si propone la cancellazione del debito, molti creditori si allontanano», ha fatto notare di recente in un’intervista ad Avvenire il numero due di Banca mondiale, Axel van Trotsenburg, secondo cui, per i motivi appena accennati, una remissione del debito è oggi abbastanza difficile. Siccità record e inondazioni rischiano di colpire, con danni per decine di miliardi l’anno, sempre più anche i Paesi ricchi, ma sulla decarbonizzazione, nostra e dei più fragili, facciamo poco. Eppure, nel 2023 ogni giorno dell’anno i governi nel mondo hanno speso 6,7 miliardi di dollari in spese militari, secondo l’Istituto per la ricerca sulla pace di Stoccolma: vuol dire che i 300 miliardi di dollari annuali per la finanza climatica decisi a Baku, ancorché insufficienti, equivalgono a 45 giorni appena di spese in armi. Trecento miliardi è anche il costo del greggio usato in tutto il mondo in appena 40 giorni. O, se vogliamo, poco più dei 260 miliardi di euro spesi tra il 2010 e il 2018 per il salvataggio della Grecia dai Paesi dell’eurozona e dal Fondo monetario internazionale. È tutta una questione di priorità, insomma. E il clima, e tutti noi, non possiamo aspettare ancora.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI