Passano anche per la scuola e l'università, per il mondo della comunicazione e della fiction le vie del nuovo umanesimo. Una visione dell'uomo che non escluda la trascendenza e soprattutto non riduca le persone a numeri. Ma la domanda di fondo è: «Oggi sappiamo ancora leggere l'umano?».
Una domanda che il cardinale Crescenzio Sepe ha posto fin dall'inizio dei lavori del secondo dei Laboratori preparatori del Convegno ecclesiale nazionale di Firenze (in programma a novembre), organizzato dalla Cei. Nella tappa partenopea, celebrata nei saloni della Stazione Marittima, l'arcivescovo di Napoli ha così inquadrato il problema: «Sappiamo guardare all'uomo nella sua verità, o egli ci appare come un fantasma che cammina nelle nostre strade?». Monsignor Antonino Raspanti, vescovo di Acireale e presidente della Commissione episcopale per la cultura e la comunicazione, fa notare che «il Convegno di Firenze non è un Concilio, non vuole risolvere i problemi della Chiesa italiana, ma offrire chiavi di lettura in cui si sviluppano esperienze di umanità riuscita». Queste chiavi sono più che mai importanti per decifrare il mondo dell'informazione. Specie di fronte a quello che Marco Tarquinio ha definito il «divorzio progressivo tra coloro che vogliono essere informati e coloro che informano». Il direttore di Avvenire, intervenuto alla tavola rotonda su "Comunicazione, annuncio e dialogo di umanità" moderata dalla massmediologa Chiara Giaccardi, passa in rassegna le derive potenzialmente disumanizzanti del giornalismo odierno. In particolare la mancanza di amore e di cura che, insieme con «pressapochismo, sensazionalismo e inscatolamento delle persone in categorie» finisce per «far strage di umanità». Ecco perché nel cantiere del nuovo umanesimo bisogna «rimettere l'informazione ad altezza d'uomo. Perché se ad esempio guardiamo il processo migratorio dall'alto delle nostre torri, vediamo il fenomeno. Se lo guardiamo ad altezza d'uomo, vediamo le persone». Secondo Paolo Ruffini, direttore di Tv2000, per superare le insidie, «dobbiamo accettare la sfida della forma. Magari pensiamo che la forza del contenuto basti. E invece non è così. Paolo VI diceva: 'A che cosa serve dire cose bellissime se poi gli uomini di oggi non ci capiscono?'». Dunque contano gli ascolti: «Mai pensare che la televisione fatta bene sia la televisione che non fa ascolti». Vincenzo Morgante, direttore della Testata Giornalistica Regionale della Rai, ai suoi giornalisti dice sempre che «maneggiamo materiale "esplosivo". Maneggiamo le persone. E quando abbiamo diffamato, offeso, detto cose false, non ci sarà nessuna smentita o diritto all'oblio in grado di rimettere le cose a posto». Ma, se come ha detto il sociologo Giacomo Di Gennaro, «comunicare è farsi prossimo, cioè costruire una casa comune», a comunicare si deve imparare fin dalla scuola. Tra tablet e libri di testo, tra interrogazioni vecchio stile e nuove istanze di inclusione, tra ricerche su Google e ricerca universitaria autentica, tra disegni di legge sulla buona scuola e dibattiti sulle buone prassi, la scuola e l'università sono chiamate oggi non solo a formare i cittadini del domani, ma a disegnare i contorni di un nuovo umanesimo che dell'umano abbia i caratteri fondamentali. Innanzitutto due osservazioni di partenza: «Le culture informali dei giovani sono sempre più lontane dalle culture proposte dalla scuola», ha detto Pier Cesare Rivoltella, dell'Università Cattolica. Tuttavia, ha aggiunto Marco Rossi Doria, già sottosegretario all'Istruzione, questo passaggio epocale è gestito oggi da «una generazione d'insegnanti con la media di età più alta d'Europa, 54 anni e con pochissimi nativi digitali». Le proposte? Dal «nuovo patto educativo tra genitori, docenti e alunni» alla riscoperta di una antica ricetta di don Milani («non bocciare; a quelli che ci sembrano cretini dargli una scuola a tempo pieno; agli svogliati basta dargli uno scopo»), fino a un uso ragionato delle nuove tecnologie e alla reintroduzione della manualità nelle aule scolastiche.