lunedì 6 luglio 2015
Al via la causa di beatificazione per 35 vittime dei Khmer rossi. La sorella del vescovo Joseph Chhmar Salas rievoca la persecuzione contro i cristiani.
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La piccola ma vivace comunità cattolica cambogiana guarda al passato, al tesoro dei suoi martiri, per camminare spedita verso il futuro. Di recente è stata solennemente avviata, per iniziativa del vicario apostolico di Phnom Penh, la fase diocesana della causa di beatificazione di 35 martiri. Monsignor Joseph Chhmar Salas (primo e sinora unico vescovo cambogiano), morto nel 1975 all’età di 38 anni, durante il regime dei khmer rossi, è indubbiamente il personaggio più significativo di questo drappello, che comprende anche numerosi missionari francesi.C’è una testimone diretta dell’odissea e della morte di monsignor Salas: è la sorella minore Prakot, che abbiamo incontrato a Phnom Penh. «La nostra (otto figli, quattro maschi e altrettante femmine) era una famiglia molto cattolica – attacca Prakot - tant’è che due dei miei fratelli (oltre a Salas anche Salem) sono diventati preti». Il primo fu ordinato prete in Cambogia nel 1964, mentre Salem in Francia, perché il clima politico si stava facendo difficile (fine anni Sessanta).Il momento cruciale sarebbe arrivato di lì a poco. Nel 1974 Salas si prese un anno sabbatico e andò in Francia. Ma la situazione politica degenerò in breve tempo e il vicario apostolico lo richiamò in Cambogia. Il 14 aprile 1975 Salas fu ordinato vescovo. «La cerimonia avvenne nella chiesa di Satoi: ricordo che nel bel mezzo cadde una bomba. Solo tre giorni dopo, il fatidico 17 aprile, Pol Pot entrò in Phnom Penh. E iniziò il regime dei khmer rossi». La successione degli eventi fu frenetica: «Ci spinsero tutti fuori dalle case. La gente prese con sé solo l’essenziale, ovvero cibo per un giorno. Si camminava lentamente perché in strada c’era un’autentica fiumana di gente». Col passare delle ore le poche provviste finirono e lo scenario divenne sempre più drammatico: «Lungo la strada trovammo un deposito di riso, che venne assalito dalla gente affamata. C’erano donne che, ormai alla fine della gravidanza, si videro costrette a partorire per strada, malati che, non potendo reggere il ritmo, venivano lasciati per strada». Mentre camminavano, i vari gruppi familiari cominciarono a sfaldarsi, nella calca. «I sacerdoti amministravano i sacramenti per strada, soprattutto confessioni e matrimoni; alcune coppie avevano gli anelli con loro, in altri casi si celebrarono nozze usando come anelli fili di paglia». Non era possibile fermarsi, spiega Prakot, «perché i soldati puntavano il fucile addosso alle persone e a volte uccidevano all’istante per allertare gli altri». Dopo un sospiro, Parakot riprende il racconto: «I miei due fratelli preti e un altro sacerdote - che si erano finti insegnanti per i khmer rossi - vennero separati e mandati nel villaggio di Chan. In breve, imparammo il vocabolario dei khmer rossi. Un linguaggio totalmente nuovo. Non si poteva usare il termine “malattia”: se uno era malato veniva considerato automaticamente “pigro” e quindi fatto fuori perché ormai inutile».Finalmente alla famiglia di Prakot venne assegnato un piccolo lotto di terreno in mezzo a una risaia. «Non c’era nulla, per terra c’era sella paglia e un telone di plastica. Dormivamo così, con animali di tutti i tipi che giravano. Un giorno passò di lì una donna capo-villaggio: vedendoci in 8 persone in uno spazio piccolissimo, ci portò un letto. Ma in seguito sparì e la gente disse che aveva pagato la sua generosità con il sangue».I due preti e il vescovo appena potevano celebravano Messa in segreto. «In quei casi noi ragazze ci spostavamo intorno alla casa per proteggerli, fingendo di lavorare. Ovviamente serviva una scusa per spostarsi. Così, quando essi venivano da noi per dire Messa si portavano le canne da pesca e noi preparavamo pesce fresco; al contrario, quando noi ci recavamo da loro portavamo coi noi attrezzi per raccogliere frutta e verdura e loro ci facevano trovare qualche frutto pronto o qualche ortaggio già raccolto».Continua: «Siccome Salas non aveva una gran salute, venne messo nella cucina comune. Saputo che cercavano volontari per i gruppi di “lavoratori mobili”, si offrì volontario perché questo gli avrebbe concesso la possibilità di muoversi e incontrare i cristiani». Ma le cose non andarono come sperato. «A Salas furono affidati lavori molto pesanti e lontano dai villaggi. Dopo di che si ammalò e finì all’ospedale. Successivamente, tornato a far parte del “gruppo mobile”, gli furono affidati i maiali. Il cibo era così scarso che si mise a mangiare un po’ del loro. Ma fu visto dai ragazzi, figli di khmer rossi, che l’accusarono: “Se mangi, è perché stai bene”. Egli rispose che si sentiva troppo debole per lavorare in risaia.”Se svieni ti raccogliamo noi!”, gli risposero, deridendolo. Salas svenne davvero. Lo portarono alla pagoda Thla, un medico lo fece ricoverare in ospedale. Si svegliò, mangiò una minestra di riso e morì». Quando la notizia della morte del fratello arrivò a Prakot ella chiesi di poter avere il corpo di Salas. «Mi dissero di tornare tre giorni dopo. Ma i corpi nel frattempo erano stati rimossi. Intanto Salem ci fece sapere che era stato spostato in un altro villaggio nuovo. Egli e l’altro prete partirono insieme, ma di loro non si ebbero più notizie». Una lacrima scivola furtiva dagli occhi. Prakot conclude: «Il capo villaggio che abitava di fronte a noi fuggì di notte con la famiglia. Sapeva la verità. Io me ne lamentai con papà, ma egli rispose: “Non sta a noi giudicare, a noi è chiesto solo di saper perdonare”».
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