Un anno fa, il 7 agosto 2019, moriva tra le fiamme della sua baracca nel ghetto della Felandina, Elis Petty Stone, bracciante nigeriana di 28 anni, mamma di due bambini. Il 6 marzo era stata sgomberata dalla baraccopoli di San Ferdinando, smantellata a colpi di ruspa. Un intervento fortemente voluto dall’allora ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Ma alla donna non era stato offerto nulla. Così dalla baracca in Calabria era finita in un’altra in Basilicata, nel comune di Bernalda, un altro dei ghetti dove vivono in condizioni indegne i braccianti immigrati. E lì le fiamme l’avevano uccisa. Pochi giorni dopo, il 28 agosto, anche quel ghetto era stato abbattuto, ma nuovamente senza realizzare nulla per ospitare i braccianti, spesso sfruttati da caporali e imprenditori. Sono così nate altre baraccopoli, mentre le sole iniziative di accoglienza sono state realizzate dalla diocesi di Matera, come ricorda nell’intervista che pubblichiamo, l’arcivescovo Antonio Giuseppe Caiazzo. Oggi Petty sarà ricordata alle 10 al cimitero di Bernalda dove è sepolta, con un momento di preghiera promosso da Chiesa, Comune e varie associazioni. Alle 18.30, in Prefettura a Matera un incontro organizzato da Cgil, Cisl e Uil.
Monsignor Caiazzo, lei come arcivescovo di Matera, un anno fa sul luogo della morte di Petty parlò di «una condizione disumana» che andava «risolta alla radice, altrimenti questa gente sarà sempre costretta a vagare». Cosa è cambiato? Se è cambiato...
Quando a una famiglia viene dato lo sfratto e viene tolta con la forza, se non ha un’altra casa dove andare si troverà in mezzo a una strada, si accamperà in qualche modo. La condizione della famiglia, già povera e impossibilitata a pagare il fitto, diventa peggiore di prima. Solo se qualcuno si fa carico di quella famiglia, aiutandola non solo a trovare un’altra casa dignitosa ma soprattutto a essere autonoma sostenendola attraverso un lavoro, potrà rimanere legata nel contesto sociale nel quale è inserita, diventando protagonista. Lo stesso per le centinaia di persone che già vivevano in una condizione disumana presso la Felandina. Hanno trovato altri posti di rifugio sparsi su tutto il territorio del metapontino o sono andate via. Il problema non è stato risolto e non sarà mai risolto fino a quando non ci sarà una politica che prenda seriamente in esame il problema con dei progetti e programmi precisi, mettendo a disposizione strutture a dimensione familiare. Tutti abbiamo diritto a una casa, a stare con i nostri affetti cari per sentirci avvolgere dalla forza dell’amore. È l’unica legge capace di combattere e distruggere ogni discriminazione, di ingiustizia sociale, ogni male.
Al di là delle eventuali responsabilità dirette, di chi è la responsabilità di morti come quella di Petty? Lo scorso anno dissi: «Tutti usciamo sconfitti da questa triste vicenda». Una brutta pagina della nostra storia che ci ha segnati, risvegliando, comunque, tanta solidarietà e partecipazione per venire incontro alle oltre 600 persone bisognose di tutto. La corsa verso la solidarietà è stata più forte di chi cantava vittoria, anche a livello nazionale, esprimendo soddisfazione. So solo che la Caritas Diocesana e le Caritas parrocchiali di Bernalda, Metaponto e dell’intera Arcidiocesi, in collaborazione con il Comune di Bernalda e di tante associazioni di volontariato, hanno agito in sinergia provvedendo quotidianamente, in piena estate, all’indispensabile: pasti caldi, indumenti, materassi. È stata una bella risposta di solidarietà, coordinata dai parroci don Pasquale Giordano, don Giuseppe La Vecchia, don Mariano Crucinio, don Giuseppe Calabrese. Quando succedono queste cose la responsabilità non è mai di una sola persona o di un’organizzazione o di un partito. Manca di certo una politica di inclusione capace di guardare gli immigrati come persone. Spesso vengono considerati numeri, anzi ogni giorno vengono contati ma difficilmente si raccontano le loro vicende umane se non quando commettono dei reati.
Petty era stata sgomberata dalla baraccopoli di San Ferdinando. E poi anche quella della Felandina è stata sgomberata. Ma gli sgomberi sono una soluzione?
Nel mondo le baraccopoli fanno da cornice attorno alle grandi città. In ognuna di esse succede di tutto e di più. D’altronde sono lo scarto dell’umanità costretto a vivere in condizione miserevole che peggiora ogni giorno. In Italia una volta avevamo i Rom, gli Zingari che, in tante situazioni cittadine, si sono, se pur lentamente, integrati. Oggi la povertà, la miseria, le guerre, il miraggio di un occidente ricco, le promesse di una terra promessa, soprattutto per le ragazze che poi vengono buttate sui marciapiedi, hanno fatto aumentare notevolmente il flusso dei migranti da tutte le parti del mondo e verso tutte le nazioni di un Nord del mondo sempre più ricco e di un Sud sempre più povero.
Cosa ha fatto la Chiesa a favore di questi lavoratori?
Non vorrei parlare di quello che noi come Chiesa abbiamo fatto e stiamo facendo. Preciso solo questo: non abbiamo mai ricevuto soldi dallo Stato e se dovessero farci delle proposte non ne vogliamo. Ringrazio la Cei che ha accolto il progetto, presentato da me, di comprare una struttura di 650 metri quadri vicino alla Felandina, aiutandomi economicamente. È nata 'Casa Betania' gestita dalla Caritas Diocesana, dal Direttore Diocesano Migrantes, don Antonio Polidoro, dal cappellano dei migranti, don Gabriel Maizuca, con l’aiuto anche di altri enti e associazioni locali. Abbiamo voluto coinvolgere anche degli imprenditori agricoli che, assumendo con regolare contratto questi fratelli, ci stanno aiutando a vincere il caporalato. Un altro grosso numero di immigrati lo abbiamo accolto per diversi mesi nei locali della parrocchia di Metaponto fino a quando la Caritas Diocesana non ha sottoscritto un contratto per due appartamenti attrezzati di tutto. Attualmente, su tutto il territorio della Diocesi stiamo offrendo un tetto dignitoso, garantendo un lavoro, aiutandoli a rendersi autonomi, a oltre un centinaio di lavoratori.
Ma basta la Chiesa? Non è un comodo alibi? Tanto c’è la Chiesa... La Chiesa fa la sua parte. Ma non basta. Spesso anche le istituzioni governative e locali si rivolgono alla Chiesa per risolvere annosi problemi. Noi continueremo a fare ciò che è giusto e doveroso, ma una piccola Diocesi di 143mila abitanti non può risolvere tutti i problemi. Spesso, ha ragione lei, è un comodo alibi e si pretende che la Chiesa intervenga. Soprattutto, lo dicono, quanti in chiesa non entrano mai.
Le associazioni del volontariato chiedono importanti modifiche ai cosiddetti decreti sicurezza che fanno finire le persone per strada o nelle baracche, come Petty. Ma non si decide e intanto gli “invisibili” aumentano.
I decreti sicurezza non fanno che alimentare un atteggiamento discriminatorio nei confronti di persone che hanno un solo torto: sono straniere e povere. Tutto questo procura una condanna verso la precarietà e marginalità, a danno di tutti noi. Come Chiesa non possiamo accettare tutto ciò: è contro il Vangelo di Gesù Cristo e l’insegnamento della stessa Chiesa. Ci troviamo spesso a dover supplire a ciò che uno Stato civile dovrebbe garantire. Gli interessi di bandiera sono più importanti della dignità della persona, di ogni persona.
Anche in Basilicata le inchieste fanno emergere gravi casi di sfruttamento e caporalato. Ultimamente sono emersi casi di sfruttamento del caporalato anche nella nostra bella, piccola ma accogliente Basilicata. Se da una parte ci fa soffrire, dall’altra ci consola che determinati crimini vengano smascherati. Devo comunque dire che la maggior parte degli imprenditori collaborano, assumono e sono contenti. Tra loro e gli immigrati c’è spesso un bel legame.