Dovevano essere come Benito, gente col cuore gonfio di speranza e di disperazione, quei partigiani che salirono in montagna con Primo Levi, per finire tutti insieme ad Auschwitz, passando per Fossoli. Oggi, Benito Sogari, 86 anni, non ha più una casa, eppure il terremoto non ha spento la luce nei suoi occhi azzurri, mentre ringrazia il parroco per una scodella di latte. La paura vela di tristezza, invece, quelli di Paola, mentre sventola un fazzoletto sui riccioli di Rebecca, assopita nel grande gazebo della tendopoli di Fossoli: vi riconosci la pena delle madri di
Se questo è un uomo, mentre «preparano con dolce cura il cibo per il viaggio». Quando un mostro distrugge tutto, le abitazioni, i luoghi di lavoro e quelli della fede, quando sembra che lo Stato ti voglia abbandonare, e quando tutto questo succede a Fossoli, l’esperienza si mescola al déjà vu e la paura riecheggia orrori ben più grandi. Trascinandoti lentamente nella depressione: «Considerate se questo è un uomo che non conosce pace...».Il campo di concentramento di Fossoli è a duecento metri dalla parrocchia che si è reinventata tendopoli. Spontanea dicono i parrocchiani. Abusiva, precisano a bassa voce due infermiere dell’ospedale di Carpi. Sono venute ieri a visitare chi sta male, «ufficiosamente» perché le tendopoli nelle frazioni non dovrebbero esserci secondo la Protezione civile. In realtà, non dovrebbe esserci neanche l’ospedale: ci hanno chiuso perché è inagibile – ci ha spiegato l’infermiera "ufficiosa" – ma non possiamo lasciare queste persone senza cure, quindi ogni mattina ci riuniamo nel cortile del poliambulatorio e poi, con la nostra auto privata, iniziamo a girare parrocchie e cortili, per evitare l’emergenza nell’emergenza». Altrove, avvertono, si segnalano i primi casi di scabbia. L’ordine è: lavarsi, lavarsi, lavarsi. Con l’ex campo di concentramento a due passi le ridondanze sono scontate, ma è proprio questo il piccolo miracolo di Fossali: trasformare un paesino con l’odio e la morte scritti nella storia in una comunità che vince la paura e la tentazione di fuggire lontano. Suor Antonietta, una delle tre figlie della Madonna del Divino Amore di Roma, racconta che la gente ha iniziato a correre verso la chiesa pochi minuti dopo il terremoto. «Dovevamo ospitare tutto il paese nella casa del Popolo, dove si era appena chiusa la festa del Pd, ma è diventata inagibile la strada e la parrocchia era una delle soluzioni migliori per le famiglie con i bambini piccoli», conferma il segretario del Pd Marco Reggiani, che non ama i preti ma va d’amore e d’accordo con don Roberto Vecchi. Nessun remake alla Guareschi, questa è l’Emilia rossa, ma quella vera. Il parroco di qui, nel ’46, lo ammazzarono sulla porta della canonica; aveva aiutato sia i partigiani sia i nazisti. Da allora, le sensibilità sono cambiate, ma ancora oggi la strada che porta alla chiesa, invece di agganciarsi alla provinciale, fa un lungo giro tra le case, così che a messa ci arriva chi proprio vuole... Adesso ci arrivano tutti, «anzi, non so quanto reggeremo, perché il sovraffollamento può porre problemi igienici e di sicurezza che una parrocchia non è attrezzata ad affrontare», sottolinea Rosa Alberti, una volontaria. Il cuore della tendopoli è un immenso gazebo in mezzo al campo da calcio e decine di canadesi tutt’intorno. Una tenda per organizzare la cucina e tutto il resto è spazio gioco per i bambini. Don Roberto è anche assistente di Azione Cattolica e il direttore dell’ufficio catechistico della diocesi di Carpi, un ministero dove la fede lavora con le parole e meno di braccia: «Ora mi devo occupare della sicurezza del campo, di fare scorta di pannolini e gelati, di non far mancare l’acqua e la corrente per i cellulari, perché senza telefonino oggi non si vive più...». Passa Badredine, una moglie e quattro figli, e si profonde in un lungo saluto. Diverse famiglie islamiche hanno scelto di rifiugiarsi qui. «Sia chiaro, non si fa proselitismo religioso – precisa il prevosto –; come dice Bonhoeffer, il Vangelo si annuncia al centro della vita e non nel bel mezzo di un’emergenza...». Qui pochi conoscono Bonhoeffer, ma don Roberto conosce tutte le quattromila anime del paese: «Molti se ne andranno, è stata una botta durissima, il sisma ha schiantato sei palazzine di via Mar Tirreno». Nuovissime, ma già con una brutta vicenda di fallimenti alle spalle, che ha costretto molti proprietari a pagarsi due volte quella casa che ora sarà demolita. È fatta anche di questi sacrifici la cappa di attesa che avvertiamo. «Io so cosa vuol dire non tornare, una notte infinita è da dormire», ripete una ragazza con un sorriso acerbo. Sono i versi del Tramonto su Fossoli, sempre di Levi. «Ma da Fossali è passato anche il futuro beato Focherini», fa notare il don. Vero. Fossoli è stato un crocevia di odi ma anche di amore. Ogni mattina, il sacerdote aprendo le porte della parrocchia-tendopoli, si chiede cosa farebbe al posto suo don Zeno Saltini, il fondatore di Nomadelfia. A Fossoli, dov’è nato, il servo di Dio ha avviato la sua avventura di fraternità e il suo sogno di giustizia. La prima comunità nacque nell’ex "campo di transito" delle Ss. Una grande eredità spirituale. «Noi non abbiamo alcun progetto comunitario – precisa don Roberto – se non quello di alleviare la sofferenza della gente finché qualcun altro ci penserà. Io sono solo un prete...».