Ad esequie come quelle che stiamo celebrando converrebbe il silenzio. Su don Luigi, uomo manager e prete, s’è detto di tutto, anche fuori dalle righe, con una certa disinvoltura e non sempre con quel senso di umanità cui s’addice almeno un po’ di clemenza nei confronti delle fragilità umane. Forse, è un’ipotesi la mia, don Luigi è stato più analizzato a spicchi che considerato nella sua globalità, a partire dalla sua interiorità. Con ogni probabilità, soprattutto in questi ultimi sei mesi, in seguito ai noti eventi segnati persino da una tragedia, specialmente nei media è scattata una gran voglia di squarciare il velo della sua complessa personalità. E in tale tentativo, oltre al riconoscimento degli innegabili meriti, un po’ di fango, anche di troppo, è stato buttato addosso alla sua persona e non solo sul suo operato, su cui si può tranquillamente discutere e da cui, al limite, è lecito dissentire.Autorizzato dal fatto che don Luigi appartiene al Clero veronese da venticinque anni e che, perciò, è un mio prete, al fine di riportarne l’identità e l’opera entro l’alveo di una certa oggettività da buon senso, senza voler tesserne il panegirico e senza alcuna pretesa di dire una parola definitiva su di lui, lasciando che la giustizia faccia il suo corso, anch’io suo vescovo, che ho potuto conoscerlo in questi quattro anni e mezzo attraverso interessanti e frequenti colloqui, tento di tracciarne un profilo che spero non lontano dal reale, cercando di collocarmi all’interno della sua personalità. Dando, per così dire, voce a don Luigi, al suo versante valutativo, autoermeneutico, e alla voce di tutte le persone che gli sono sempre state vicine. Don Luigi era dotato di una personalità estremamente complessa. Sbrigliata e indomabile. Persino contraddittoria in alcuni tratti. Aveva il culto della razionalità e della libertà, ma nello stesso tempo si lasciava guidare da una fede ecclesiale autentica e ben radicata, specialmente nell’Eucaristia. Era indagatore, puntiglioso e minuzioso, delle ragioni altrui che non solo non temeva ma cercava, preoccupato come era di mettersi in comunicazione anche con chi non condivideva l’essenza stessa della fede, ma ne percepiva il fascino; d’altro canto non mancava mai di esprimere senza reticenze il suo pensiero, abitualmente ben documentato, per cui amava entrare nel circuito del confronto serrato. Solitario come tutti i geni, eppur bisognoso di amicizie vere e profonde. Discusso, avversato, e ammirato. Sicuro di sé, ma disposto anche a riconoscere di aver trasbordato, come risulta da una lettera scritta a me. Decisionista e, nel contempo, affettuoso. Manager navigato e, dall’altro versante, persino mistico. Vissuto tra gli applausi, che non disdegnava pur senza provocarli, e i grattacapi, trasformati persino in vilipendio nei suoi ultimi giorni: se è lecita l’allusione, con i dovuti distinguo, ha conosciuto i momenti del Tabor e quelli del Calvario. Nulla sembrava riuscir a fermarlo quando aveva concepito un progetto, comunque sempre talmente in grande da sfiorare voli pindarici; pensava in grande e si intestardiva a realizzare grandi opere anche al di là dei mezzi a disposizione. Le mezze misure e la mediocrità non entravano nel paniere dei suoi interessi. Quando mirava ad un obiettivo, che riteneva particolarmente importante, irrinunciabile, rispondente esattamente alle esigenze del suo carisma, - ci permettiamo di rilevare qui un suo lato vulnerabile - non badava ai mezzi, pur di conseguirlo. Aveva un suo linguaggio inconfondibile, spesso al limite del paradosso: avrebbe voluto dire più di ciò che gli riusciva di dire. Insomma, c’era in lui una eccedenza, un bisogno incoercibile di andar oltre; come a dire che aveva scolpito nel suo DNA il bisogno dell’oltre, quasi uno spasimo di assoluto e di eternità che, se gli fosse stato possibile, avrebbe concretizzato in terra.Su questa complessità della sua personalità proietta luce la Parola di Dio che ho scelto per la liturgia del commiato da don Luigi. In un primo momento avevo ipotizzato di far proclamare il vangelo della parabola dei talenti, in considerazione del grappolo di doti di cui Dio l’aveva arricchito. Poi mi sono risolto per il testo che nell’evangelista Matteo segue immediatamente, al capitolo venticinquesimo, la parabola suddetta. Ecco allora la pagina, appena ascoltata, che rileva il contesto e i contenuti del giudizio universale. Essa mette in risalto il valore eterno del talento dei talenti, senza il quale tutti gli altri sono vani: l’amore fraterno che, soprattutto grazie alle energie della fede, produce opere di carità, di solidarietà, come partecipazione all’agire di Dio Amore.Aveva in lui una particolare risonanza tutto ciò che nel vangelo si riferisce a Gesù e gli infermi, secondo il comando-missione di Cristo: “Guarite i malati” (Lc 9, 2), fino al mandato di Cristo espresso alla conclusione di Marco: “Andate in tutto il mondo e proclamate il vangelo ad ogni creatura.. imporranno le mani ai malati e questi guariranno” (Mc 16, 15.18). I malati erano i suoi padroni, come del resto soleva dire S. Giovanni Calabria da cui aveva attinto il carisma per questa categoria di persone. E perciò viveva per i malati. Se ha avuto degli eccessi, la colpa va attribuita, per così dire, ad un eccesso di amore per i malati. Per loro ha voluto il meglio del meglio. Sotto il profilo delle attenzioni umane e sotto quello professionale, che voleva eccellente. Per loro ha creato frontiere all’avanguardia mondiale sul piano della ricerca, benché siano in ogni caso sempre da tener monitorate sotto il profilo etico. Soleva dire che i malati vanno venerati, come va adorata l’Eucaristia, il Gesù presente sacramentalmente nei segni del pane consacrato, in quanto nei malati, come nei poveri in genere vi è una presenza certa di Gesù, sotto i segni del limite umano: “Ero malato e mi avete visitato.. venite benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno.. tutto quello che avete fatto ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me!” (Mt 25, 31-40). Si commoveva pensando che il giudizio di Dio passa attraverso questo esame, l’esame dell’amore, poiché di fatto il valore che ha l’uomo agli occhi di Dio corrisponde esattamente all’amore o meno di cui è intrisa e formata la sua personalità. L’Eucaristia e il malato, di qualunque provenienza, erano indissociabili. La sua fede si snodava tra adorazione all’Eucaristia e venerazione per il malato, in favore del quale voleva, esigeva, il massimo da parte dei professionisti e della tecnoscienza. Ecco il suo linguaggio iperbolico: “D’oro i tabernacoli! D’oro le strutture per i malati!”.Il suo ritiro, sempre più eremitico, degli ultimi mesi, è stato avvolto nel silenzio sofferente. Don Luigi ha vissuto nel crogiolo di una sofferenza acutissima che gli ha fatto sperimentare l’angoscia, mai la disperazione. Da solo un tale crogiolo, vissuto con il Crocifisso e con incondizionata fiducia nella sua Misericordia, potrebbe bastare a purificare le scorie di un’intera vita. Me lo confidava nella lettera del 16 dicembre scorso: “Sono qui a portare il peso della mia croce.. Così sia. Purché il mio Gesù sia contento e mi ami come io voglio amarlo”. Si sente come l’eco del testo di Paolo proclamato nella prima lettura: “Se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno” (2 Cor 4, 16). Distaccato ormai da tutto, persino dalle sue opere, come mi scriveva, teneva come unico punto focale Gesù. Il Crocifisso. Da cui si sentiva sorretto, unitamente alle persone che gli stavano più vicino. Monumento del suo genio di amore a Dio riversato sull’uomo rimane soprattutto quell’Ospedale da tutti riconosciuto di eccellenza mondiale come è il S. Raffaele, che non esisterebbe senza don Luigi.E il suo carisma, concentrato nel notissimo aforisma: “Sacerdozio e medicina”, come patrimonio prezioso rimane nelle mani dell’Associazione dei Sigilli, che l’hanno assimilato nel volgere di decenni di consuetudine familiare.La sua salma è stata portata qui ad Illasi, ed è stato come il ritorno di un vecchio patriarca nella sua terra d’origine, per trovarvi riposo nella tomba di famiglia.Non ci resta che affidare don Luigi al giudizio misericordioso di Dio che scruta i cuori e conosce il travaglio della vita, con gli slanci di entusiasmo dell’uomo e con le sue miserie, con il bene compiuto e con i peccati commessi.Ora egli vive il mistero di sé nel Mistero assoluto, nella pienezza di quella Vita verso la quale siamo incamminati, con tensione interiore al naturale e sospinti dallo Spirito, come al compimento e al terminale del nostro essere venuti al mondo.