Washington. Eutanasia e medici? Incompatibili. Lo dice (da sempre) l'organismo mondiale
Una delle sigle più rappresentative a livello globale: questo è la World Medical Association (Wma), che con le sue 109 associazioni mediche nazionali federate (e 10 milioni di membri) convoca congressi mondiali per redigere linee guida etiche da diffondere tra i camici bianchi dei cinque continenti. La sua storia parla chiaro: nasce infatti nel 1947 per reagire all’asservimento della scienza e della professione medica ai ripugnanti disegni del totalitarismo nazista (e non solo). Una sorta di garanzia morale che l’orrore dell’uso di vite umane come cavie o la morte procurata a esseri umani considerati sacrificabili non avrebbe mai più dovuto verificarsi, non con un medico come esecutore materiale, almeno.
La posizione della Wma su grandi temi etici assume dunque grande rilievo per il prestigio dell'organismo, la rappresentatività e la sua stessa storia. E quando in alcuni Paesi si torna a parlare di eutanasia (è il caso ora della Spagna, dove il Parlamento inizia l'esame della legge sulla "muerte digna"), o se ne discute a proposito di possibili estensioni della sua pratica (Belgio, Olanda, ma anche Stati Uniti, Canada, la stessa Svizzera con il triste fenomeno delle "cliniche" per il suicidio assistito), è bene ricordare cosa l'associazione che rappresenta tutti i medici del mondo dice in materia. Da sempre. Perché se è vero che nell'ultimo suo consesso globale (a Chicago) la Wma non ha parlato di morte procurata, tuttavia il suo "statement" contrario alla collaborazione dei medici ad atti eutanasici approvato a Madrid nel 1987, confermato poi a Divonne-les-Bains, in Francia (2005), e ribadito a Oslo nel 2015 non è mai stato modificato, malgrado le pressioni culturali, legislative e mediatiche in tutto il mondo. L’Associazione, si legge nella dichiarazione solenne che tuttora rappresenta la posizione ufficiale della World Medical Association, afferma infatti che l'eutanasia, definita come «l'atto che deliberatamente pone fine alla vita di un paziente», è non etica» «anche se c'è la richiesta del paziente stesso o di familiari stretti». Questo, aggiunge la Wma, «non dispensa il medico dal rispettare il desiderio del paziente di consentire che il naturale processo della morte faccia il suo corso nella fase terminale della malattia». Non accanirsi, cosa assai diversa dal procurare la morte.