Vita

La storia. «L’infarto, 47 giorni di coma, poi una vita nuova»

Lorenzo Rosoli venerdì 13 dicembre 2019

Vittore De Carli durante uno dei suoi pellegrinaggi a Lourdes

L’infarto. Gli arresti cardiaci. L’operazione a cuore aperto. La ricostruzione della valvola mitrale. I cinque by pass. La sofferenza, fisica e morale. La paura di non farcela. Il coma, un incubo lungo 47 giorni rimasto scolpito per intero nella memoria. Il risveglio, con la scoperta straziante di ritrovarsi un corpo devastato e l’incapacità di comunicare in modo comprensibile. Il calvario della riabilitazione. E la consapevolezza che nulla sarà più come prima, e che la malattia sarà compagna di viaggio per tutti i giorni a venire. E la scoperta che, nella malattia, tutto acquista un senso nuovo, e che il senso di tutto, alla radice, è che la vita è vissuta davvero quando è vita donata. Anche nella fragilità estrema. E che non c’è solidarietà più misteriosa eppure reale, effettiva, efficace, di quella sperimentata nella preghiera. Com’è accaduto anche nei giorni del coma. Giorni di solitudine angosciante, quelli "dall’altra parte dello specchio", quando corpo e anima sembrano prendere strade diverse. Eppure giorni di incontri sorprendenti. Come quello con Paolo VI. Ed è bello, ora, ricordare il papa di Concesio che ti viene incontro, e in quel disperante "purgatorio" sentirsi finalmente chiamare per nome: «Vittore, come stai? Dai, dai che ce la fai e festeggeremo insieme».
Il "Vittore" incoraggiato dal Pontefice bresciano è lombardo anch’egli: Vittore De Carli, nato a Como nel 1958, figlio di una famiglia contadina che lo ha educato alla fede, alla devozione mariana, al gusto per il lavoro ben fatto, al prendersi cura degli altri. Una vita da giornalista e comunicatore, la sua. E, fin dai primi anni 70, di impegno nell’Unitalsi (Unione nazionale italiana trasporto ammalati a Lourdes e santuari internazionali) fino a diventare, nel 2011, presidente della sezione lombarda. Una vita a 45 giri. Fino a quel giovedì 13 agosto 2015 quando la "puntina" salta, l’infarto lo inchioda. E inizia – parola sua – «un nuovo grande pellegrinaggio». «Il viaggio più importante, l’unico che non ho potuto raccontare in diretta», annota De Carli.
Ma la malattia non ha spento la sua vocazione di comunicatore, tutt’altro. «Dopo aver trascorso la vita a raccontare degli altri ho deciso di parlare un po’ di me stesso per essere testimone e aiutare le famiglie che incontrano la malattia ad affrontarla». Così è nato il libro Dal buio alla luce con la forza della preghiera (Libreria editrice vaticana, 120 pagine, 10 euro) nel quale De Carli ripercorre la sua esperienza. La malattia, il coma, la riabilitazione, tutto è narrato con parola incalzante e sobria, anche negli aspetti più dolorosi, drammatici, sgradevoli, senza edulcorare la realtà, né arenarsi nell’edificante, e offrendo, assieme a pagine commoventi, tocchi di vivificante ironia. Un libro per condividere cosa gli ha insegnato quella «maestra severa» che è la malattia. Che davvero «ci mette a nudo». E ci emargina, ci spersonalizza, ci rende estranei a noi stessi e agli altri. Ma «se è vero che la malattia divide – riconosce De Carli – è anche vero che se c’è la fede la malattia unisce. Ti unisce al volto del Cristo sofferente, ti unisce al volto materno di Maria, ti unisce al volto di quel malato che hai conosciuto e che tu credevi di aiutare, ma che invece ha aiutato te».
Ecco il cuore della sua testimonianza. La malattia è stata davvero uno sprofondare nel «buio». Ma se De Carli ha potuto rivedere la luce, parola sua, è stato per l’alleanza tra scienza e fede, tra medicina e preghiera, e per l’affidamento alla misericordia di Dio. «Da cattolico penso che le preghiere mi abbiano salvato come le medicine». Per questo sente il desiderio di «ringraziare dal profondo del cuore» chi si è preso cura di lui, anche con la preghiera, a partire dalla moglie Lucia, e poi: i figli, la sorella, gli amici dell’Unitalsi, i medici, gli infermieri, i fisioterapisti, i compagni di degenza, fino agli sconosciuti che – da casa, da Lourdes, da Loreto – hanno pregato per Vittore. Il quale, dentro questa "compagnia" orante, ricorda d’aver fatto la sua parte anche in coma. «È stata la preghiera a farmi ritrovare la strada di casa. Non so quante Ave Maria ho ripetuto dov’ero, ma anche la mia famiglia e in particolare mia moglie hanno fatto la stessa cosa».
La malattia isola e spezza. La solidarietà nella preghiera e nella cura unisce e rigenera. Così De Carli ha potuto compiere questo pellegrinaggio «dal buio alla luce». Fino a riconciliarsi con la malattia. Fino a ringraziarla «perché ha aperto la mia mente e il mio cuore». Rinnovando il desiderio di «fare dono della mia vita agli altri». Ecco dunque questo libro, i cui proventi vanno alla realizzazione di una casa d’accoglienza per i genitori dei bambini che arrivano da tutta Italia a Milano per essere ricoverati nei suoi ospedali. La struttura, intitolata a Fabrizio Frizzi, amico e volontario dell’Unitalsi, vuol essere «un segno di gratitudine, come un ex voto, nella convinzione che l’amore di Dio si manifesta attraverso le mani dell’uomo».
De Carli, intanto, continua il suo cammino di impegno e servizio. A 33 giri, dice lui, ma va avanti. Ora anche con un nuovo libro, Come seme che germoglia. Sacerdoti nella malattia (Lev). Nell’ottobre del 2017 era riuscito a tornare a Lourdes. Una gioia indicibile. Un’altra grande gioia, un anno dopo: la canonizzazione di Paolo VI. «Dai che ce la fai, festeggeremo insieme», aveva detto papa Montini. Aveva ragione.