Promuovere la vita. C'è uno sguardo nuovo all'inizio della cura
Un neonato venuto alla luce su una nave umanitaria approdata in Itaiia
La rinnovata vivacità della Chiesa italiana, delle piazze per la pace, per i diritti delle famiglie, è ancora oggi il segno di un bisogno di visioni alte, di “fini” importanti. Scriveva Carlo Casini nel 2013: «Propongo di sostituire la parola valori con fini… il fine da raggiungere apre la mente al futuro e al nuovo, il “valore non negoziabile” fa pensare erroneamente a un atteggiamento conservatore ma non è trincea difensiva. Soprattutto, il fine da perseguire introduce il tema della gradualità... se voglio raggiungere il Monte Bianco non tradisco il mio progetto se una tempesta mi costringe a fermarmi per qualche tempo».
Mi pare fondamentale reintrodurre una sana ed efficace discussione sul “fine” del diritto alla vita di tutti, a partire dal concepito sino al malato grave, all’immigrato col suo progetto di un futuro dignitoso, all’anziano troppo spesso lasciato solo da una società che non ti aiuta a invecchiare. Il termine “fine”, scopo, permette anche di ricordare a tutti che appartiene all’umano una dimensione trascendente e una sete di oltre che fanno di ogni uomo e ogni donna una persona con una destinazione inscritta nel profondo dell’umano, come ci ricorda Leopardi: «Ove tende /questo vagar mio breve / il tuo corso immortale? ». Il grande lavoro dei cattolici a sostegno di ogni vita ha una profonda radice cristiana: lo sguardo curioso attento alla persona, all’altro, al singolo individuo che inizia la sua corsa verso l’eternità. Curioso e cura hanno la medesima origine. Scriveva ancora nel 1992 Casini: «Da dove nasce la cultura della vita nascente? Rispondo con una espressione del cardinale Ratzinger: nasce da uno sguardo».
È necessario recuperare l’intensità di uno sguardo che dia vita, che si accorga, che sia l’inizio della cura, delle cure parentali che ci rendono così umani e che sono, come è stato ormai appurato, la causa più profonda del sorgere antico dell’amore coniugale e del sentimento amoroso che lega una donna a un uomo. I nostri tempi affannati hanno bisogno di uno sguardo calmo, pacato e capace di cogliere non solo la superficie ma anche il senso. Noi viviamo tra sguardi distratti o malevoli, che ci giudicano, ci processano, ci scartano o non si posano, non hanno né pazienza né misericordia. Sguardi parziali o pregiudiziali che escludono la vita, la rifiutano, la rimandano indietro come fosse un pacco di Amazon giunto fallato, o non sanno considerarla quella meraviglia della creazione che continua. Viviamo un tempo dove avvertiamo una stridente contraddizione. In Italia è protagonista una società libera o liberissima, se solo la confrontiamo con quella di qualche decennio fa. Eppure sentiamo, in questa bulimia di diritti, come tutta questa aura di libertà ottenute non ci abbia reso affatto persone risolutivamente libere, dopo essersi liberate. Emancipato e libero non sono termini che hanno lo stesso senso. Emancipazione rimanda al peso del giogo passato. Libertà rimanda al contenuto di ciò che possiamo, finalmente, realizzare. Ci sentiamo inadeguati, spaesati e un po’ schiacciati dalla tendenza a una umiliante e straniante uniformità. Il vero significato della libertà è maturità per la responsabi-lità, per la scelta. Siamo stati liberati per difendere chi e cosa? Liberi per camminare verso quale direzione e raggiungere quale traguardo?
Tre indizi che l’uomo contemporaneo non sa bene cosa sia la vera libertà. Il primo: non sappiamo più scegliere di legarsi con fedeltà. Scegliere una persona, eleggerla per costruire una famiglia sarebbe ed è segno di estrema e matura libertà di investimento. Il Dio dei cristiani è un Dio libero perché elegge, sceglie e rimane fedele alla sua elezione. Secondo indizio: la cappa ossessiva del politically correct si stringe sopra le nostre teste e le teste delle nuove generazioni, come a dire: devi pensare quello che pensiamo o abbiamo già pensato noi, perché siamo noi che pensiamo bene e quindi pensiamo anche per te. Non un grande passo in avanti per la libertà di pensiero. Terzo indizio: libertà per tutti ma non per il concepito di terminare la sua gravidanza venendo alla luce. I diritti di questo mondo si fermano sulla soglia di un grembo materno. Gesù è venuto perché gli uomini e le donne «abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».
Questo è il tema. Ci saremo anche liberati da pesi oppressivi, patriarcati, colonie, povertà e malattie, ma rischiamo di dimenticarci della domanda: liberati per quale gioiosa abbondanza? Liberi di condividere la medesima identità di Dio, fonte della creazione e della generazione? Il problema è che questo mondo sembra non volerla, la vita. All’abbondanza preferisce la scarsità. Pare esserne disturbato nella sua corsa verso le cose e il suo accumulo. La vita chiama il mio impegno alla cura, è fragilità a cui prestare forza e amore. Tempo, cuore e mani. Anche i matrimoni sono calati, in chiesa o fuori, come segno del calo del desiderio di unirsi e generare qualcosa di vitale. Rimangono tanti solo gli innamoramenti, le passioni che bruciano. Il matrimonio richiede l’arte della pazienza e della relazione, la nobile fatica di creare spazio ad altri per diventare più umani e meno soli. I figli che mancano sono la conseguenza del calo dei matrimoni e della crisi di legami fragili. La vita è un lungo discorso scritto diritto ma su righe storte. Cristina Comencini ha detto che le donne hanno raggiunto molti diritti e che ora rimarrebbe da riconquistare «la libertà di fare figli». Da qua, possiamo ricominciare a coltivare il prestigio tutto umano di riconoscerci collaboratori di Dio nel proseguire la sua opera. Pontificia Accademia per la Vita