Intervista a Marina Casini Bandini. «Un anno senza Carlo Casini, mio papà»
Carlo Casini (Firenze, 4 marzo 1935 – Roma, 23 marzo 2020)
«In preghiera per e con Carlo Casini»: martedì 23 marzo, un anno esatto dalla morte di Carlo Casini, viene trasmessa alle 17 in diretta streaming sul sito del Movimento per la Vita (www.mpv.org) una liturgia della Parola nel Santuario della Divina misericordia di Roma presieduta dal cardinale Giovanni Battista Re. Il link per collegarsi alla diretta del 23 marzo è: https://youtu.be/CJyXX6nR8Qw.
Un anno fa, il 23 marzo, se ne andava Carlo Casini. Quanto ci manca la sua presenza? Può aiutarci a misurarlo chi l’assenza la avverte più di tutti: la figlia Marina Casini Bandini, a sua volta presidente del Movimento per la Vita.
Qual è il ricordo più nitido che custodisce di lui?
Di ricordi ne ho tantissimi, attraversano tutta la mia vita fino all’anno scorso. Ricordo un’estate in montagna, sarà stata la fine degli anni 80 o l’inizio dei 90, eravamo lui e io sulla stessa seggiovia. Sospesi per aria, guardava assorto il panorama: a un certo punto mi disse che era tutto bellissimo, un incanto, che tutto rimandava a Dio, a un’intelligenza buona, creatrice e ordinatrice. Mi parlò della secolarizzazione che rendeva l’uomo incapace di vedere la presenza di Dio nella natura che si rigenera e si rinnova con generosità... Lo ricordo poi magistrato tra i suoi colleghi in tribunale, con gli amici del gruppo della "Chiesina", a caccia di funghi, mentre canta canzoni di montagna, in campeggio a piazzare la roulotte e montare la veranda, a fare mobili e impagliare seggiole, giocare a calcio con i miei fratelli, inventare canzoni con i nostri nomi, giocare agli indovinelli, raccontare barzellette, lavorare fino a notte fonda e alzarsi prestissimo...
Che padre è stato Carlo Casini per lei?
Potrei sembrare esagerata, ma lo dico: un padre eccezionale. Un punto di riferimento. Non solo per me, ma anche per i miei fratelli Francesco, Donatella, Marco. Aggiungo anche Benedetta e Donato che sono nostri cugini, figli di un fratello della mamma. Rimasti molto presto soli, sono cresciuti con noi come figli dei miei genitori e fratelli nostri. Il babbo non si perdeva mai d’animo, trasmetteva serenità. Ci diceva che la gioia è l’anima dell’apostolato. Anche quando riprendeva non mortificava mai, ma incoraggiava, puntava al positivo. Ci ha insegnato ad andare in bici, sugli sci, a pattinare, a pregare. Da bambini, la sera, quando non rientrava tardi, prima di andare a dormire ci raggiungeva con la mamma per le preghiere e la buonanotte. Se avevamo lasciato i vestiti accatastati e rovesciati su una seggiola, li sistemava rimettendoli dalla parte diritta, invitandoci a fare lo stesso. Ricordo le ninne nanne. Quando era a casa e noi figli uscivamo la sera, aspettava con la mamma il nostro rientro a casa. Era pronto ad aiutare se vedeva che qualcuno di noi aveva bisogno e ha saputo tenere un rapporto personale con ciascuno. Non voleva che ci scoraggiassimo di fronte ai nostri stessi errori, esortandoci a riprendere il cammino con fiducia. Era delicatamente attento alla nostra vita spirituale. Era allegro. Anche quando siamo diventati grandi, da lui ci si sentiva accolti, compresi, amati.
Tra tanti impegni pubblici, com’è riuscito a non perdere di vista la sua famiglia?
Ci voleva molto bene e anche quando era assente riusciva a farsi presente con telefonate, biglietti, lettere. Ha saputo rendere significativa e premurosa la sua presenza in famiglia. Quando c’era, cercavamo di stare tutti il più possibile insieme. Bellissimi i periodi estivi, indimenticabili alcuni viaggi. La mamma è stata bravissima, sia perché ha sempre reso partecipe il babbo di ciò che avveniva in casa sia perché ha abbracciato fino in fondo il suo impegno presentandocelo come una "missione" che ci coinvolgeva anche come famiglia. Lei ci teneva a farci respirare – come diceva – la stessa aria del babbo, spronandoci ad andare con lui tutte le volte che era possibile. Ci diceva che da quello che faceva il babbo potevamo imparare anche noi tante cose. Di conseguenza le assenze del babbo erano giustificate dal suo generoso e coraggioso servizio che anche noi, restando uniti, concorrevamo a realizzare. Le campagne elettorali così come le Giornate per la vita e le iniziative del Movimento, hanno scandito la nostra vita familiare e sono state vissute in comunione. Per il babbo la famiglia era una realtà "missionaria", un riflesso della Trinità, cioè una comunione di amore diffusivo che fa progredire la storia verso un destino di Amore.
Come le ha trasmesso la passione per la causa della vita umana nascente?
Con l’esempio, la coerenza, con quello che diceva e scriveva, con la sua stessa vita. Sin da ragazzina, ascoltavo le sue conferenze, leggevo i suoi scritti, partecipavo alle riunioni del Movimento. Non sempre da giovane comprendevo tutto quello che diceva e scriveva, ma capivo che era in gioco qualcosa di molto grande. Partecipai al referendum del 1981 con l’entusiasmo dei 15 anni. Ricordo che una volta pensai: «Caspita, ma fa proprio sul serio!». E così, ho cominciato a tenere in maniera molto artigianale l’archivio dei suoi scritti, proseguendo quanto iniziato dalla mamma. Poi, crescendo, c’è stata tra noi una grande collaborazione, di cui sono veramente contenta: abbiamo scritto insieme libri e articoli, conversato e riflettuto. Aveva una capacità di lavoro straordinaria e un pensiero lucido, profondo e rigoroso. Non era facile stargli dietro...
Quale eredità le sembra oggi la più importante per lei?
Ora come ora, sarebbe urgente un ripensamento della politica alla luce del diritto alla vita dal concepimento, che è come dire alla luce della questione antropologica come decisiva nel pensare e nell’agire politico. Un antidoto per ogni forma di corruzione e degenerazione della politica: aiuterebbe anche a ricostruire in termini corretti il concetto di laicità, a mobilitare energie per un rinnovamento civile e morale, a dimostrare che la vita unisce, apre varchi, costruisce ponti. Darebbe compimento al moto storico di liberazione che oggi è chiamato a confrontarsi con la dignità umana sulle frontiere estreme della vita. Ovviamente si tratta di accettare l’inevitabile gradualità degli obiettivi perseguibili, nella logica del massimo bene raggiungibile "qui ed ora". Per quanto mi riguarda, avverto il dovere di custodire e diffondere il pensiero del babbo.