Vita

Trieste. Richiesta di suicidio assistito, l’Asl, il tribunale: un caso "da manuale"

Francesco Dal Mas giovedì 18 luglio 2024

Martina Oppelli

Nell’autunno scorso l’Azienda sanitaria universitaria di Trieste, Asugi, aveva negato alla 49enne Martina Oppelli l’accesso al suicidio assistito. A partire dal 17 luglio, invece, avrà 30 giorni di tempo per effettuare una nuova valutazione, trascorsi i quali dovrà pagare 500 euro a Martina per ogni giorno di ritardo, oltre al pagamento delle spese di giudizio. Lo ha stabilito il Tribunale di Trieste, con la sentenza con cui impone all’Azienda sanitaria universitaria giuliano isontina di procedere a una nuova verifica delle condizioni della donna, che da vent’anni ormai convive con la sclerosi multipla. «Senza l’assistenza di terze persone – ricorda l’Associazione radicale Luca Coscioni – Martina Oppelli non può mangiare, bere, muoversi e neanche assumere i farmaci di cui ha bisogno».
«La decisione del Tribunale di Trieste denota grande sensibilità di chi ha saputo riconoscere il dolore in una creatura che, nonostante tutto, conserva sempre il sorriso sul viso. Ora vorrei che questo mio piccolo movimento immobile scuotesse le coscienze di chi ha la capacità e il potere di aprire varchi legali in muri che sembrano invalicabili» è il commento della stessa Oppelli, difesa dall’avvocata Filomena Gallo, dell’Associazione Coscioni.
Paolo Pesce, medico, bioeticista stretto collaboratore del vescovo Enrico Trevisi e della diocesi di Trieste, spiega anzitutto che la commissione dell’Asugi, interpellata sulla valutazione se la paziente triestina rientrasse nelle condizioni stabilite dalla Corte costituzionale per riconoscere la possibilità di richiedere il suicidio medicalmente assistito, aveva espresso parere sfavorevole perché la Oppelli non era sottoposta a trattamenti di sostegno vitale. «La commissione dell’Asugi aveva fatto una scelta coraggiosa, perché in passato, per un caso analogo aveva riconosciuto che la sola necessità di assistenza continua per l’alimentazione e l’igiene personale erano condizioni sufficienti per essere considerate trattamenti di sostegno vitale». La paziente ha chiesto un riesame da parte della commissione. «La signora Oppelli, che ha già fatto apparizioni pubbliche, appare pienamente cosciente, è assistita per tutte le necessità della vita quotidiana, assume farmaci per il controllo dei sintomi legati alla malattia, ma non è, per quanto noto, legata né ad alimentazione né idratazione, né respirazione artificiale» puntualizza il dottor Pesce.
La paziente vorrebbe che questa dipendenza fosse riconosciuta come trattamento di sostegno vitale. «Sta proprio qui il centro della questione – secondo l’esperto –, portato avanti dall’Associazione Coscioni che assiste legalmente la signora. Infatti la Corte costituzionale nella sua sentenza 242 del 2019 aveva affermato che non è punibile chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli», punti ribaditi dai giudici costituzionali nel nuovo pronunciamento del 18 luglio. «La Corte – ricorda Pesce – non ha riconosciuto il diritto al suicidio assistito, ma ha depenalizzato il reato di aiuto al suicidio (art. 580 Codice penale) nel caso ricorrano le suddette condizioni».
Pesce nota ancora che recentemente anche la Corte europea dei Diritti dell’ Uomo per un paziente ungherese in condizioni analoghe alla signora triestina ne ha respinto il ricorso, affermando che non esiste un diritto al suicidio assistito, e che ciò non lede i diritti dell’uomo.
Secondo il consulente della diocesi di Trieste è «improbabile che la commissione Asugi rinneghi sé stessa anche perché recentemente il Comitato nazionale per la Bioetica ha fatto chiarezza su cosa si intenda per trattamenti di sostegno vitale. Essi vanno valutati alla luce della loro finalità, intensità e conseguenze alla sospensione. Il Cnb ha affermato quindi che si tratta “non di un semplice ‘sostegno’, ma di una vera e propria ‘sostituzione’ di una funzione vitale che l’organismo è ormai del tutto incapace di assicurare autonomamente. Non vanno confusi con un trattamento o un farmaco salvavita. La sospensione di un trattamento di sostegno vitale provoca conseguenze fatali immediate o comunque rapide, in relazione al tipo di trattamento e alle condizioni cliniche del paziente”. È chiaro, quindi, che la paziente triestina non rientra in queste condizioni».
Pur facendo riferimento alla sentenza della Corte costituzionale per il procedimento nei confronti di Marco Cappato in relazione al suicidio assistito di Fabiano Antoniani (dj Fabo), qui – secondo il dottor Pesce – «ci troviamo in un contesto completamente diverso, perché la signora di Trieste, a differenza di Fabo, non ha né alimentazione né idratazione né respirazione artificiale. In sintesi, la Corte costituzionale, nella depenalizzazione del reato di suicidio assistito, aveva cercato un bilanciamento tra situazione di gravità percepita soggettivamente ma confermata oggettivamente dalla dipendenza dai trattamenti di sostegno vitale. Il tentativo dell’Associazione Coscioni è quello di enfatizzare la componente soggettiva di sofferenza, annullando quella oggettiva del riconoscimento dei trattamenti di sostegno e, in tal modo, assolutizzare il principio di autodeterminazione, non tenendo conto di altri principi di rango costituzionale, tra i primi la difesa della vita umana».