Vita

Fine vita. Biotestamento le dieci parole da conoscere

Michele Aramini giovedì 7 dicembre 2017

La legge sul testamento biologico in discussione al Senato suscita molti interrogativi e richiede una conoscenza corretta dei termini che si impiegano nel dibattito. A questo fine sono rivolte le spiegazioni di questo decalogo bioetico.

1. Biotestamento. Si tratta di un documento legale con il quale una persona esprime la sua volontà sui trattamenti medici che le devono essere applicati in futuro, nel caso si venga a trovare in stato di incapacità per esprimere la propria volontà. L’articolo 9 della Convenzione di Oviedo lo considera uno strumento bioeticamente utile per continuare il dialogo medicopaziente quando quest’ultimo non può più esprimersi. In italiano tale documento va sotto la sigla Dat (Dichiarazioni anticipate di trattamento), mentre nel progetto di legge in discussione al Senato la sigla «Dat» sta per «Disposizioni anticipate di trattamento». Il cambiamento è rilevante perché influisce negativamente sul rapporto di alleanza terapeutica tra medico e paziente.

2. Eutanasia. Nell’accezione corrente per eutanasia si intende «un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte allo scopo di eliminare il dolore» (Dichiarazione sull’eutanasia, 1980); o; ancora, «l’uccisione diretta e volontaria di un paziente terminale in condizione di grave sofferenza e su sua richiesta» (Comitato nazionale bioetica, 1995). Proprio per il fatto che l’eutanasia concettualmente si colloca a livello delle intenzioni la distinzione tra eutanasia attiva, passiva, omissiva, porta solo confusione. Se si vuole la morte del paziente, quale che sia il mezzo per ottenerla, siamo in presenza di eutanasia e basta.

3. Suicidio assistito. Una forma di suicidio che differisce da quello corrente perché riceve un aiuto medico e logistico per raggiungere lo scopo. L’atto di togliersi la vita è compiuto dal soggetto stesso mentre i medici o la struttura sanitaria preparano i farmaci mortali e le modalità di assunzione da parte del paziente che richiede l’assistenza. Una dozzina di Stati ammette il suicidio assistito, pratica che rischia di diventare forma mascherata di eutanasia su richiesta, estesa anche a pazienti con patologie depressive, o persino sani ma che hanno perso il gusto di vivere.

4. Accanimento terapeutico/cure futili. È l’ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un significativo miglioramento della sua qualità di vita. In questo caso le terapie praticate costituiscono un aggravio per il paziente. In àmbito anglosassone si parla di principio di futilità, che valuta se un dato trattamento è utile o futile rispetto all’obiettivo che si vuole raggiungere. L’accanimento terapeutico è vietato dalle leggi e dall’etica, ma si pratica per la pressione dei parenti del malato o dei medici che, per tutelarsi, praticano la medicina difensiva. Per stabilire se ci sia accanimento terapeutico occorre un criterio di giudizio che ritroviamo nella proporzionalità della cura. Tale criterio si compone di due elementi: la valutazione del trattamento sanitario e la gravosità fisica esistenziale per il paziente. In base a questo criterio un trattamento terapeutico può essere proporzionato o sproporzionato. Nel caso sia palesemente sproporzionato costituisce accanimento terapeutico.

5. Desistenza terapeutica. Concettualmente non si distingue molto dal rifiuto dell’accanimento terapeutico. Esprime l’idea che il medico è un lottatore a favore del paziente ma si ferma solo quando la cura rischia di trasformarsi in un danno per il paziente stesso.

6. Abbandono terapeutico. È l’abbandono volontario di un paziente alla sua sorte, omettendo un’azione terapeutica dovuta. È un atteggiamento che si insinua nella prassi medica e nelle legislazioni di alcuni Paesi. Ad esempio: blocco diagnostico- terapeutico per pazienti che superino gli 80 anni di età oppure per i malati cronici. In questo caso occorre proporre il principio dell’insistenza terapeutica, cioè il prolungamento delle terapie e/o delle cure di sostegno vitale, anche per lungo tempo, a fronte di situazioni cliniche con prognosi non sicuramente prevedibile.

7. Cure palliative. Sono le cure che accompagnano la persona con malattia terminale verso la sua morte naturale. Si compongono di due elementi strettamente connessi: le terapie antidolore e la cura del mondo vitale del paziente e dei suoi familiari. Si tratta perciò di una cura integrale che abbraccia tutte le dimensioni fisiche, psichiche, sociali e spirituali. Per questo esse sono realizzate da una équipe multidisciplinare formata da medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, ministri del culto, volontari. Lo scopo è garantire la più elevata qualità della vita per il paziente e i suoi familiari.

8. Nutrizione artificiale. La nutrizione e l’idratazione, anche artificialmente somministrate, rientrano tra le cure di base dovute al paziente. In linea di principio sono un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. Possono essere sospese solo quando risultino troppo gravose o prive di beneficio. La loro sospensione non giustificata può avere il significato di un vero atto eutanasico.

9. Proporzionalità delle cure. È uno degli aspetti di più difficile valutazione. I criteri sono due: la documentata efficacia o inefficacia clinica e la gravosità fisica ed esistenziale per il paziente, i familiari e la società. Quest’ultimo aspetto è particolarmente complesso dal punto di vista bioetico e apre alla domanda sul corretto modo di impiegare le sempre più limitate risorse economiche in sanità.

10. Sedazione palliativa profonda continua. È la soppressione della coscienza del malato, in prossimità della morte, quando si è in presenza di dolori insopportabili, refrattari alle terapie analgesiche usuali o se si prevede una particolare crisi nel momento della morte. È lecita con il consenso del malato, con l’informazione ai familiari e con esclusione di intenzionalità eutanasiche. RIPRODUZIONE RISERVATA