Coronavirus. «Ricoveri in terapia intensiva secondo speranza di vita e limiti di età»
Tutto esaurito. Dei 461 ricoverati nei reparti di terapia intensiva di Italia per coronavirus 309 sono nella sola Lombardia, con un aumento di 65 in un solo giorno. Una situazione che pone per la prima volta su vasta scala di fronte a un dilemma sinora quasi solo accademico: se c’è un solo ricovero possibile e si presentano due pazienti in condizioni critiche, che si fa? «Si tratta di privilegiare la "maggior speranza di vita"». La risposta – realista ma piuttosto inquietante, a dire il vero – arriva dalla Siaarti, la «Società italiana di anestesia analgesia rianimazione e terapia intensiva», che ieri ha diffuso un documento con 15 criteri per aiutare gli specialisti a decidere in situazioni-limite come quella nella quale già versano alcuni reparti. Nelle «Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili» il Gruppo di lavoro della Siaarti ricorda che potrebbero non bastare più i riferimenti abituali della «appropriatezza clinica» e della «proporzionalità delle cure» e diventare necessario il ricorso «a un criterio il più possibile condiviso di giustizia distributiva e di appropriata allocazione di risorse sanitarie obbligatorie». Cosa significa, nei fatti? Che una situazione come quella attuale con «caratteristiche di eccezionalità» se non di «maxi-emergenza» consiglierebbe di «garantire i trattamenti di carattere intensivo ai pazienti con maggiori possibilità di successo terapeutico». Il quadro estremo causato dal contagio, secondo la Società scientifica, «comporta di non dover necessariamente seguire un criterio di accesso alle cure intensive di tipo "first come, first served"» (per primo si assiste il primo che arriva). A questa categoria andrebbero sostituiti altri parametri: «Il tipo e la gravità della malattia, la presenza di comorbilità, la compromissione di altri organi e apparati e la reversibilità». Una valutazione complessa che – nei fatti – potrebbe tradursi in ciò che gli specialisti Siaarti citano senza giri di parole al punto 3 delle loro raccomandazioni: «Può rendersi necessario porre un limite di età all’ingresso in terapia intensiva». Se si pensa che gli ultimi dati parlano di età media delle vittime sinora pari a 81 anni, il criterio anagrafico per l’accesso a terapie (forse) salvavita fa una certa impressione. «Non si tratta di compiere scelte meramente di valore – spiega il documento – ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata, in un’ottica di massimizzazione dei benefici per il maggior numero di persone». Immaginando l’obiezione etica (e umana) a un’affermazione di questa portata, che configura comunque una "classifica" dei cittadini in base all’anno di nascita, gli estensori delle raccomandazioni affermano che restare fedeli al criterio cronologico – si cura secondo l’ordine di presentazione in reparto – «equivarrebbe comunque a scegliere di non curare gli eventuali pazienti successivi che rimarrebbero esclusi dalla terapia intensiva». Una situazione che apre interrogativi enormi. E che impone di chiedersi se i paradigmi indicati siano quelli eticamente più condivisibili.
«In momenti di eccezionale gravità come questi si può derogare dalla prassi – riflette il bioeticista milanese don Michele Aramini – ma senza mai perdere di vista l’orizzonte generale: intendo dire che va anzitutto chiesto e compiuto ogni sforzo per incrementare i posti nei reparti. Se questo non basta, i medici devono valutare caso per caso in équipe multidisciplinari, e non da soli con il metro di criteri stabiliti a priori. Tutte le persone conservano sempre il diritto a essere curate. Provvedimenti estremi vanno comunque sospesi appena possibile per non creare nuove prassi sostitutive di quelle che hanno sempre ispirato la condotta degli specialisti».