Vita

Il caso. «Vogliamo vivere, non suicidarci»: i malati davanti alla Corte costituzionale

Danilo Poggio martedì 25 marzo 2025
Maria Letizia Russo (a sinistra, in sedia a rotelle) con la sorella

Maria Letizia Russo (a sinistra, in sedia a rotelle) con la sorella

«Chiedo allo Stato di aiutarmi a vivere al meglio. Non di aiutarmi a morire o di lasciarmi da solo a decidere davanti al buio del dolore e della disperazione». La Consulta domani torna a pronunciarsi sul tema del fine vita, analizzando i criteri già stabiliti nelle sentenze in materia di suicidio assistito. E Dario Mongiano è una delle quattro persone affette da patologie e disabilità gravi che hanno richiesto di essere ammesse a giudizio, in quanto portatrici a pieno titolo di un interesse sostanziale.

Nel 2019 la Corte aveva stabilito che l’assistenza al suicidio non è perseguibile penalmente soltanto nel caso in cui siano soddisfatte quattro condizioni precise: la presenza di una patologia irreversibile, la capacità di intendere e volere del paziente, l’esperienza di una sofferenza intollerabile e la necessità che il paziente dipenda da trattamenti di sostegno vitale. E proprio quest’ultimo criterio è ora al centro della discussione.

Partendo dall’autodenuncia di Marco Cappato per avere accompagnato due persone a morire in un centro specializzato in Svizzera nel 2022, i pm di Milano Tiziana Siciliano e Luca Gaglio hanno chiesto l’archiviazione per Cappato, mentre la gip Sara Cipolla ha trasmesso gli atti alla Consulta, sospendendo il procedimento: «Del tutto irragionevole, e dunque discriminatoria – si legge nell’ordinanza di rimessione firmata dalla gip milanese – appare l’esclusione dalle pratiche di suicidio assistito di chi, pur affetto da una patologia irreversibile e destinato a morte certa, non abbia in corso un trattamento di sostegno vitale in quanto futile o inutile. Si ha, infatti, in questa ipotesi, una irragionevole discriminazione tra soggetti in posizioni del tutto analoghe».

L’opinione di Dario Mongiano è invece molto diversa. Affetto dalla nascita «da un male che non regredisce», la tetraparesi spastica, cui si aggiunge una grave asma bronchiale, pensa che allargare le possibilità per il suicidio assistito sia un grave errore: «Se passasse questa idea, anche io potrei richiederlo. E non voglio che lo Stato mi dia questa possibilità. La mia vita sarebbe meno protetta perché tutto dipenderebbe esclusivamente dalla mia capacità di resistere al dolore. Sarei lasciato solo, ricadrebbe tutto sulle mie spalle e in alcuni momenti è molto difficile fare affidamento soltanto sulla propria forza di volontà».

A 62 anni è orgoglioso delle tante cose che ha fatto: laureato in Filosofia morale a pieni voti, nel 2004 ha inaugurato a Moncalieri, nel Torinese, la Casa Famiglia Pier Giorgio Frassati, dove vive insieme ad altri nove disabili motori. Una vita vissuta da protagonista, anche nei momenti in cui l’asma pareva togliergli il fiato per sempre. «Non giudico chi la pensa diversamente, conosco la profondità del dolore, ma chiedo allo Stato di non abbassare la tutela per la mia vita e la mia dignità. Il suicidio assistito apparentemente è un gesto di pietà, ma in realtà è molto crudele. Nessun uomo deve poter dire a un altro “è giusto per te non esserci più”. Ho vissuto grazie a chi mi ha aiutato a vivere, non a morire».

Maria Letizia Russo oggi è preside di una scuola a Palermo, ma ha avuto per lungo tempo uno studio legale, esercitando come avvocato. Mai si sarebbe aspettata di arrivare alla Corte costituzionale, ma ha deciso di far sentire anche la sua voce: la voce di quelli che vogliono vivere fino alla fine. A 40 anni ha iniziato ad avere alcuni sintomi di una malattia genetica rara e neurodegenerativa, l’atassia di Friedreich, e da qualche anno è in carrozzina. Ha abbandonato l’impegno legale, ma continua (e, anzi, ha incrementato) l’attività nella scuola: «Alcuni paletti vanno tenuti fermi. Chiunque può affrontare delle crisi e, in quei momenti, servono persone in grado di confortarci, di aiutarci, non di portarci in Svizzera a morire. Parlare soltanto di volontà è un errore, perché in realtà è una volontà viziata dal dolore o dall’assenza di cure. Eppure tutti possono essere curati, anche quando la malattia è inguaribile: curare significa stare accanto al malato, contribuire a rendergli la vita migliore». E da giurista aggiunge: «In questo caso deve essere riconosciuto l’interesse sostanziale di partecipare al processo anche per chi dice che la vera dignità consiste nel vivere in tutte le condizioni, non nel morire. Lo Stato deve dirmi: “La tua vita è talmente importante da essere tutelata da tutti, persino da te stesso”».

Lorenzo Moscon, 31 anni, una laurea magistrale con lode in Scienze linguistiche e ora docente di inglese, spagnolo e italiano, aveva già scritto nel 2017, attraverso Avvenire, una lettera aperta indirizzata ai capigruppo di Camera e Senato, chiedendo al Parlamento di non piegarsi al vento della morte per eutanasia. Affetto da triplegia spastica dalla nascita, ha le idee molto chiare su cosa sia la dignità: «Ogni persona ha una dignità, una preziosità infinita che si fonda sulla capacità di amare, di distinguere il bene dal male e di apprezzare l’arte. La richiesta di eutanasia o suicidio assistito è dovuta a un dolore fisico insopportabile, alla solitudine nel trovarsi di fronte a qualcosa di grande che ci schiaccia e alla disperazione. Le cure palliative applicate come prevede la legge 38/2010, insieme agli affetti e alla compagnia delle persone, sono l’unica valida alternativa».

Lorenzo è fermamente convinto che allargare le maglie del suicidio assistito porti a togliere una ulteriore protezione della vita: «Come si è già visto all’estero, queste pratiche – aggiunge – sono il primo passo su un pendio scivoloso, che porta a coinvolgere categorie sempre più estese di persone. A un certo punto – è il mio timore – i medici o lo Stato potrebbero arrivare a decidere per conto nostro, senza interpellare più i malati quando arrivano a perdere la capacità di esprimersi. Si parla sempre di libertà, ma non dobbiamo dimenticare che la libertà di vivere è la condizione necessaria e imprescindibile per poter esercitare ogni altra libertà». Alla base di tutto ci sono sempre i rapporti umani: «Una reale alleanza terapeutica tra medico e paziente è possibile e indispensabile: un percorso di accompagnamento costante, non solo tecnico ma profondamente umano, capace di cogliere e soddisfare le autentiche esigenze della persona. Io ho il desiderio di vivere una vita piena. E chi è amato – ve lo assicuro – non vuole morire».

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