Analisi. Suicidio assistito, perché le “istruzioni” dell'Emilia Romagna sono sbagliate
Nei giorni scorsi la giunta della Regione Emilia-Romagna ha approvato un documento, denominato “Istruzioni tecnico-operative per la verifica dei requisiti previsti dalla sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019 e delle modalità per la sua applicazione”, inviato a tutte le Aziende sanitarie della regione, con il quale viene introdotta una regolamentazione di natura amministrativa del cosiddetto “suicidio medicalmente assistito”, senza cioè dover ricorrere alla via legislativa, evitando con ciò di esporre la maggioranza consiliare a divisioni interne.
Nel merito il documento della giunta recepisce sostanzialmente il contenuto della proposta di legge dell’Associazione Coscioni, in discussione nell’assemblea regionale. Infatti essa fa propria sia la tesi controversa della competenza delle singole Regioni ad affrontare una materia così delicata, che coinvolge l’esercizio di diritti fondamentali, sia quella del “suicidio medicalmente assistito” (Sma) come nuova prestazione sanitaria offerta dal Sevizio sanitario nazionale sulla base di un asserito esigibile “diritto di congedarsi dalla vita”, andando però ben oltre e anzi distorcendo il contenuto della pronuncia della Corte costituzionale.
Quest’ultima infatti, oltre a ribadire che il nostro ordinamento tutela il diritto alla vita e non un preteso “diritto a morire”, ha precisato che la ristretta area di non punibilità dell’“aiuto al suicidio” (art. 580 Codice penale), da essa individuata sulla base di precise e rigorose condizioni, non può comportare alcuna partecipazione alla formazione del proposito suicidario (istigazione al suicidio, art. 580 Codice penale) né alla sua attuazione concreta (omicidio del consenziente, art. 579 Codice penale) anche da parte del Ssn, cui spetta solo un compito di «verifica» circa l’esistenza delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio prestato da terzi e «le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze». In sostanza la Corte non ha introdotto una nuova prestazione o procedura del Ssn denominata “suicidio medicalmente assistito”, termine che non a caso la sentenza non usa mai.
Per contro questo è l’oggetto della proposta di legge presentata in Regione e delle pedisseque “Istruzioni tecnico-operative” della giunta, che con il termine “suicidio medicalmente assistito” configurano invece un vero e proprio percorso per l’eutanasia attiva consensuale, sia pure delimitata dalle rigorose condizioni dettate dalla Corte, come prestazione da erogarsi da parte del Ssn, andando ben oltre quanto affermato dalla Corte nella sua sentenza, ove non si parla mai di nuovi protocolli medici o di prestazioni sanitarie, se non di quelle relative alle terapie del dolore e alle cure palliative, le sole previste dalla legge in questi casi (legge n. 38 del 2010). Tanto meno si accenna nella sentenza alla questione di eventuali oneri economici a carico del Ssn, che come tali dovrebbero essere autorizzati dal legislatore.
La Corte ha precisato inoltre che a tale compito di verifica nessun medico è obbligato, valendo al riguardo l’obiezione di coscienza, a ulteriore conferma che l’accesso all’area di non punibilità dell’“aiuto al suicidio”, nella circoscritta ipotesi ammessa dalla Corte, non è in alcun modo oggetto di un diritto tutelato dall’ordinamento, ossia di una situazione soggettiva che possa essere fatta valere erga omnes come pretesa a un facere giuridicamente dovuto da parte di terzi, in particolare il Ssn, ma solo un comportamento penalmente lecito per il terzo che intendesse spontaneamente assumerlo.
In sostanza, in base alla legislazione vigente la sola prestazione sanitaria che il Ssn è tenuto a erogare in questi casi, peraltro assai rari, è l’accesso alle cure palliative e alle terapie del dolore, da assicurarsi peraltro a tutti, non certo quello di agevolare il suicidio del paziente, di cui deve solo verificare l’esistenza delle condizioni di non punibilità dell’eventuale aiuto prestato da terzi, che nella fattispecie esaminata dalla Corte costituzionale consistette nel trasporto in auto della paziente in Svizzera, dove le fu praticato il suicidio assistito.
È questo un punto assai delicato in quanto le cure palliative e le terapie del dolore, come pure un’adeguata formazione in tal senso del personale medico, se pure già previste dalla legge nazionale (legge n. 38/2010), stentano ancora a essere assicurate in moltissime strutture del Ssn a livello regionale. Questa è la vera priorità per assicurare un percorso di fine vita conforme alla dignità di ogni persona umana, non quello di agevolare l’accesso ad un preteso “suicidio medicalmente assistito”, che rischia anzi di disincentivare l’offerta di terapie del dolore, come precisato anche dalla Corte. Solo in questo modo potrà essere garantita a ogni paziente una scelta davvero libera e consapevole, che potrà includere, a fronte di sofferenze divenute per lui intollerabili, anche il rifiuto o la sospensione dei trattamenti di sostegno vitale con la possibile applicazione contestuale di adeguate terapie del dolore, compresa la sedazione profonda.
Quanto alla scelta della giunta regionale di affrontare simili tematiche con una regolamentazione di natura amministrativa, sottratta al pubblico dibattito, mi sembra che esprima un approccio paternalista e dirigista incompatibile con i princìpi di democrazia e pluralismo che ispirano il nostro ordinamento e una visione quanto meno riduttiva del diritto alla vita e del valore della dignità umana. Drammatiche situazioni di vita e di sofferenza, individuali e spesso familiari, vengono banalizzate al punto da ridurle a mere questioni burocratiche da risolversi entro termini brevi prefissati dall’amministrazione sanitaria, previa compilazione di moduli prestampati, quasi si trattasse della richiesta di semplici esami diagnostici.
Da ultimo mi pare che un simile provvedimento, privo di natura legislativa, non fornisca alcuna copertura, sul piano penale e civile, per eventuali responsabilità del singolo operatore sanitario derivanti da atti e comportamenti da lui concretamente assunti in conformità a esso. Infatti i giudici, in uno Stato di diritto come il nostro, sono tenuti ad applicare (solo) la legge, potendo disapplicare eventuali atti amministrativi ritenuti illegittimi, tanto più in materia penale, ove vige il principio di riserva assoluta di legge.
In sostanza il singolo operatore o direttore sanitario che intendesse seguire le Istruzioni tecnico-operative regionali, incidenti in materia presidiata da norme penali, potrebbe essere chiamato a rispondere in proprio, ossia personalmente, davanti al giudice di eventuali comportamenti ritenuti penalmente e/o civilmente illeciti, senza potersi discolpare appellandosi a esse, potendo ciò mettere in discussione la stessa copertura assicurativa per eventuali danni prodotti a terzi.
Si tratta quindi, a mio parere, di un provvedimento non solo azzardato sul piano politico e amministrativo, ove realizza un’evidente forzatura, e verosimilmente illegittimi sul piano formale, in quanto basato su un eccesso di potere da parte della Regione, ma anche incauto sul piano giuridico, in quanto rischia di esporre il personale medico e l’apparato sanitario regionale a responsabilità civili e penali per atti e comportamenti assunti in conformità ad esso.
Università Lumsa, Roma
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