Suicidio assistito. I limiti (insuperabili) della Corte costituzionale per una legge
L'aula del Senato, il ramo del Parlamento chiamato a discutere di una legge sul fine vita
Solleva molte incognite la riproposizione in Senato, con limitatissime correzioni formali, del “ddl Bazoli” sul suicidio assistito, che secondo i suoi sostenitori attuerebbe i princìpi sanciti dalla sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale. In realtà non è proprio così, come era apparso chiaro fin dalla scorsa legislatura, quando il testo non giunse alla fine del suo iter.
Il punto è che mentre la pronuncia della Corte si era limitata a prevedere la non punibilità dell’aiuto al suicidio in alcuni casi, «senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici», la proposta di legge esprime piuttosto la volontà politica di normalizzare l’aiuto al suicidio, introducendo procedure organizzate e doveri di prestazione da parte delle regioni, tenute a garantire il “servizio”. Di conseguenza il comportamento di chi «determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione», che resta un reato punibile con la reclusione da cinque a dodici ai sensi dell’articolo 580 del Codice penale, salvi i casi indicati dalla sentenza citata, diventerebbe con questa legge, a talune condizioni, addirittura un atto sanitario obbligatorio, a cui i medici potrebbero sottrarsi solo con l’obiezione di coscienza (peraltro disciplinata in modo talmente indeterminato da metterne a rischio l’esercizio).
Inoltre il testo presenta evidenti profili di incostituzionalità laddove prevede che il paziente, ricorrendo al giudice, possa comunque ottenere il farmaco letale contro il parere medico. Anche qui la proposta di legge finirebbe per scardinare i principi della stessa sentenza n. 242/2019. Questa, com’è noto, ha dichiarato non punibile il reato di aiuto al suicidio nelle situazioni in cui il proposito suicida si sia formato autonomamente e liberamente in una persona che è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili e pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; le condizioni e le modalità di esecuzione devono poi essere verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale previo parere del comitato etico territorialmente competente; vanno inoltre rispettate le modalità degli articoli 1 e 2 della legge 219/2017 sul consenso informato e le Disposizioni anticipate di trattamento e il paziente deve essere previamente coinvolto in un percorso di cure palliative, pre-requisito di altre scelte. Se tuttavia fosse il giudice ad autorizzare il farmaco in caso di diniego, la decisione finale verrebbe adottata al di fuori della relazione fra medico e paziente e a prescindere dai controlli di carattere etico-clinico sulla sussistenza di tutti i requisiti menzionati: i giudici potrebbero contestare queste valutazioni e reinterpretare a modo loro i requisiti di non punibilità del reato di aiuto al suicidio, con l’ulteriore conseguenza di generare disuguaglianze (smentendo chi sostiene che una legge nazionale porterebbe uniformità di trattamento).
Il ddl, fra l’altro, amplia la platea dei soggetti che possono accedere al suicidio assistito, prevedendolo per chiunque sia affetto «da una patologia irreversibile e con prognosi infausta o da una condizione clinica irreversibile» (articolo 1 del testo), mentre la sentenza 242/2019 si riferiva, piuttosto, alla «patologia irreversibile».
Considerare però “suicidabili” i malati cronici, i “grandi anziani” e gli invalidi, indirizzando queste categorie di persone verso percorsi finalizzati alla “morte volontaria medicalmente assistita”, risulta in contrasto non solo con il diritto alla salute e con il principio della pari dignità sociale, ma anche con le più recenti affermazioni della Corte costituzionale, secondo cui il diritto alla vita, «valore che si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona», deve essere garantito soprattutto nei confronti dei soggetti «più deboli e vulnerabili».
Se poi si ritiene che il legislatore sia libero di discostarsi dai requisiti individuati dalla Corte per facilitare l’aiuto al suicidio, che diritto non è, si deve coerentemente ammettere che possa esserlo anche qualora ritenga invece opportuno garantire adeguatamente il fondamentale diritto alla vita. Del resto quella sentenza Nicklinson della Corte suprema del Regno Unito, che la stessa Corte costituzionale ha voluto richiamare nell’ordinanza n. 207/2018, sempre a proposito dell’articolo 580 del Codice penale, ha affermato che spetta al Parlamento decidere se e come cambiare le norme; e che, inoltre, la scelta di permettere in alcuni casi l’aiuto al suicidio è assai problematica rispetto alle persone con disabilità che dipendono dagli altri, per la pressione sociale indiretta che ciò potrebbe comportare per loro.
* Ordinario di Diritto costituzionale presso l’Università La Sapienza di Roma
Componente del Comitato nazionale di Bioetica