Sanità. Stress post-Covid, sanitari alle corde
Aridi, poco empatici, stanchi e sofferenti. La sindrome da burnout brucia le risorse dei sanitari dopo due anni e mezzo di pandemia. Sul fenomeno anche la ricerca produce studi. Uno dell’Università di Verona sottolinea il fortissimo coinvolgimento degli infermieri, in cima ai più “bruciati”. Un altro dell’Università di Bari rivela che il 70% degli infermieri accusa oggi disturbi del sonno, il 33% ha disturbi d’ansia e la metà ha scarsa capacità di proteggersi dallo stress.
«Molti hanno più sintomi sovrapposti. Ciò crea cali di memoria, aumento del-l’irritabilità, che si traduce in scarsa efficienza e si ripercuote sul malato», commenta Pietro Giurdanella, consigliere del comitato centrale della Federazione nazionale Ordini professioni infermieristiche (Fnopi) che ha collaborato all’indagine. In ballo c’è la necessità di non nascondere la cura del curante. «Sono stati due anni di grande dedizione ma devastanti. Gli infermieri hanno una grande capacità di resilienza. Ma finita la fase degli 'eroi', le istanze che abbiamo avanzato non sono ancora nell’agenda politica». Fra i nodi la formazione: «Veniamo da oltre 10 anni di scarso investimento, abbiamo il più basso indice di insegnanti (il rapporto è di un docente a 1.350 studenti) e l’abbandono è del 25%».
Nonostante fossero impiegati nell’esame di massa dei tamponi o delle radiografie del torace per gli iscritti della Federazione nazionale ordini dei Tecnici sanitari di radiologia medica e delle Professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione, due anni fa, nessuno spendeva per loro una parola di riconoscimento. «Sono un tecnico di radiologia che ha lavorato in prima linea – dice la presidente Teresa Calandra – . Siamo andati oltre le forze. Tutto ciò che prima lamentavamo, la carenza di personale o le difficoltà organizzative, è passato in secondo piano». E lo stress non è ancora finito: «In estate le aziende hanno l’obiettivo di recuperare le liste d’attesa. Non c’è un’integrazione o un ricambio. E mi viene un nodo alla gola nel dire che l’operatore sanitario, nonostante tenga alla salute del cittadino, non ce la fa più».
L’esperienza ha dato frutto lo scorso anno con la Costituzione etica, «una carta dei valori in cui si parla dei sanitari come persone. È stato importante il lavoro con la Pastorale della Salute della Cei, che ci ha permesso di coniugare aspetto professionale e spirituale». E poi c’è burnout e burnout. Chi lavora nei pronto soccorso vive una condizione se pos- sibile peggiore. Gli esperti la chiamano moral injure, letteralmente lesione morale, un concetto che nasce dopo i conflitti in Iraq. È la ferita che i soldati subivano nell’eseguire ordini sulla popolazione. Numerosi studi stanno indagando il fenomeno in ambito medico. «Siamo costretti a mantenere i pazienti in condizioni che non condividiamo.
2 I più provati sembrano essere gli infermieri: il 70% accusa ancora disturbi del sonno, il 33% ha problemi d’ansia e la metà mostra scarsa capacità di difendersi dal logoramento
3 I tecnici della sanità dicono di essere «andati oltre le forze», chi opera nei pronto soccorso soffre nel vedere i pazienti in condizioni degradanti, e gli psichiatri rimuovono i loro disturbi
Vediamo anziani ancora lucidi che nell’arco di 24 ore di permanenza in ospedale vanno incontro al delirio», racconta Fabio De Iaco, presidente della Società italiana di Emergenza urgenza (Simeu). Alcuni mesi fa la Società ha inviato una lettera all’American Journal of Emergency Medicine con i dati di una ricerca condotta nei pronto soccorso italiani: dopo due anni il coping, cioè la capacità di fronteggiare compiti complessi, non è cambiata. «Dove pecchiamo è nel curare noi stessi, anche nell’animo. Sta passando in secondo piano l’autotutela rispetto alla necessità di mantenere il servizio di emergenza». Per De Iaco un’ondata di Covid autunnale farà cadere «in una crisi organizzativa perché avremo nuovi contagiati e un carico di lavoro spaventoso». Come fronteggiare una situazione simile? «Va mantenuta la motivazione, anche se sentiamo che l’impegno professionale sia dato per scontato e poco valorizzato ». Molti camici però lasciano la prima linea. «Chi resiste è chi ci crede più di tutti. Le fughe sono il risultato della mancanza di riconoscimento e dignità del lavoro». Impiegati doppiamente, come curanti della psiche e vittime loro stessi del burnout, gli psichiatri leggono il fenomeno in maniera critica.
«L’operatore sanitario si difende negando di essere portatore di una forma di psicopatologia invalidante, fa l’impossibile per non mettere a rischio l’affidabilità e l’operatività del proprio ruolo professionale. Ha paura di dire a se stesso che non sta bene e che è passato dalla parte di chi necessita di una cura», spiega Massimo Di Giannantonio, presidente della Società italiana di psichiatria. La categoria è in carenza di organico cronica. Il tema della sofferenza mentale in Italia è assolutamente sottovalutato «nonostante sia uno degli allarmi lanciati dall’Organizzazione mondiale della sanità». In più «la legge italiana prevede l’obbligo di finanziare la psichiatria con il 5% del budget delle aziende sanitarie, ma le cifre reali vanno dal 3,2 a un massimo del 3,5%». Per il presidente il burnout fra i sanitari rappresenta una bomba che prima o poi esploderà se non si prendono i provvedimenti necessari. E non basterà la motivazione dell’operatore per superare la crisi.