Il tema. Una giovane donna e la sterilizzazione, dove sta la vera libertà?
Si ripete con crescente frequenza il ricorso alla sterilizzazione, in termini medici salpingectomia bilaterale (la rimozione chirurgica di entrambe le tube di Falloppio). E accade non per una qualche motivazione clinica di un simile intervento, bensì su semplice richiesta della donna motivata dal desiderio di evitare definitivamente il concepimento.
La richiedono anche giovani donne senza figli, per lo più tra i venti e i trent’anni, come nel caso, recentemente venuto alla luce, di un intervento condotto in un ospedale del Veronese dopo che era stato negato dai ginecologi di un altro nosocomio perché «clinicamente non appropriato».
La motivazione dichiarata – in questo come in altri casi – è che «ogni donna deve essere libera di scegliere nella sua vita», se avere figli oppure no, o che «non vi è spazio per i figli nella mia vita».
Ma davvero privarsi per sempre della capacità di divenire genitore attraverso un atto coniugale con la persona amata rappresenta una estensione dell’esercizio della libertà nel corso della propria vita, o invece è il contrario? La facoltà di generare della donna e dell’uomo, grazie a organi integri, rappresenta una dimensione costitutiva dell’antropologia sessuata di ogni persona. E il suo esercizio – una determinazione della libertà individuale e al tempo stesso della sua capacità e volontà di relazione – non sempre accade nell’arco della vita di ogni soggetto.
Le ragioni vanno dalla decisione di vivere in perenne castità (celibataria e no) oppure di utilizzare metodi (naturali o contraccettivi) per prevenire il concepimento, dai difetti congeniti degli apparati genitali alle patologie acquisite a carico dei loro organi, dal mancato raggiungimento dell’età fertile per morte prematura alla ripetuta abortività spontanea o indotta, sino ai tentativi di concepire in età ormai troppo avanzata. A queste cause di sempre oggi si aggiungono i casi di inapplicabilità o fallimento delle tecniche di «procreazione medicalmente assistita» (Pma), cioè alle diverse modalità di fecondazione artificiale in vitro (Fiv-et) e in vivo.
Disporre degli organi che consentono maternità e paternità attraverso il rapporto sessuale allarga l’orizzonte della libertà nel vivere il proprio essere donna o uomo, includendo anche la possibilità di generare uno o più figli in una qualche stagione della propria età fertile e nella relazione con l’uomo o la donna amato/a, relazione sponsale o relazione affettiva non coniugale, come oggi accade di nuovo e spesso.
La “opzione maternità” o “paternità” è una ricchezza dell’umano e una vocazione cristiana che può essere scoperta e vissuta anche più avanti nella propria vita. E ciò che a vent’anni appare come una prospettiva da escludere risolutamente può divenire, con il tempo, una realtà desiderabile, un bene per sé, per la persona amata e per il nascituro. La categoria suprema dell’affezione a sé e agli altri è quella di lasciare spazio al desiderio imprevisto che fiorisce lungo il cammino umano intrapreso e che non è anticipabile dalla ragione calcolante, dalla progettualità che pretende di ingabbiare la libertà del domani a partire dall’imprevedibilità dell’oggi.
C’è chi si appella alla possibilità, per le donne sulle quali è stata eseguita la salpingectomia senza rimozione delle ovaie, di ricorrere alla fecondazione in vitro nel caso in cui decidessero di diventare madri in età successiva alla sterilizzazione. Non mancano studi di applicabilità di tale tecnica nei casi di salpingectomia su indicazione clinica (gravidanza tubarica, neoplasia, e altro). Ma la gravosità e il “costo umano” (cioè fisico, emotivo e relazionale) dei cicli di Fiv-et, spesso ripetuti, e le ridotte probabilità di successo, soprattutto in età avanzata, sono un fatto con cui fare i conti. La rinuncia alla propria capacità generativa naturale attraverso una mutilazione genera uno stato patologico di infertilità e, in caso di ripensamento, richiederà un trattamento medico pesante e dagli esiti incerti.