"Slalom". Mio papà Salvatore, la sua vita con la Sla e il nostro legame oltre la morte
Salvatore Mazza, a lungo vaticanista di Avvenire
Nel 2022, per Natale, mio padre ha regalato a me e mia sorella lo stesso libro: Il profeta, di Khalil Gibran. Ricordo la copia che girava per casa nostra, letta distrattamente di tanto in tanto, ma in effetti non ne avevo mai avuto una mia. Nel biglietto che accompagnava questo “pensierino”, come l’aveva definito, scrisse: «È uno dei rari libri, pochissimi, che si pongono di fronte alle grandi domande della vita cercando di offrire una risposta universale. E mi auguro che possa accompagnarvi lungo il vostro cammino nella vita.» Due giorni dopo, il 26 dicembre, mio padre è morto e il suo viaggio scomodo con la Sla si è concluso. Mentirei se non dicessi che più volte, da allora, ci siamo chieste se in qualche modo non sentisse che stava arrivando la fine, e per questo avesse deciso di farci quel regalo, di lasciarci con delle parole che potessero in qualche modo colmare il silenzio definitivo che sarebbe arrivato con la sua scomparsa.
In verità di parole, in larga parte scritte, ce ne ha lasciate, e molte sono dentro Slalom. Diario dalla Sla (Vita & Pensiero), il libro che raccoglie la rubrica attraverso la quale, sulle pagine di Avvenire, dal 20 settembre 2018 all’8 dicembre 2022, ha raccontato la sua quotidianità con la Sclerosi laterale amiotrofica. Ricordo il giorno in cui chiese a tutte noi – me, mia madre e mia sorella Camilla – cosa pensassimo dell’opportunità o meno di iniziare a tenere quello spazio sul quotidiano per cui aveva lavorato per tutta la vita. C’era il timore di alimentare quella dinamica tipica dei «reality che solleticano voyeurismo e morbosità […], dove tutto diventa pubblico, idee, emozioni, sentimenti, situazioni […]. Dove, insomma, più nulla è privato, dove non sembra esistere più uno spazio di rispetto, davanti al quale fermarsi dicendo: ok, oltre non si può andare» (8 ottobre 2020). Conoscendolo, a nessuna di noi sembrava ci fosse questo pericolo, e anzi pensavamo potesse essere un’occasione per lui di continuare a fare quello che amava di più, e cioè raccontare il mondo che lo circonda attraverso il suo sguardo ironico e lucido, talvolta cinico, mai retorico. Alla fine, accettò la proposta arrivata da Francesco, il collega che gli aveva proposto questa rubrica, e Camilla ebbe l’idea – geniale – del titolo.
In breve tempo, questo appuntamento quindicinale si è rivelato molto più che uno spazio per aprire uno squarcio su una condizione straordinaria (nel senso proprio di “fuori dal noto, dal conosciuto”), per permettere agli altri di entrare nel mondo reale di chi vive con la Sla. Per noi figlie è stata senz’altro la possibilità di aprire un canale di comunicazione con un uomo che, per sua stessa ammissione, non è mai stato un tipo di molte parole; di comprendere dove fosse con la testa e con il cuore, e di capire noi dove fossimo con la testa e con il cuore, al punto a volte da doverlo fissare su carta a nostra volta, in «una sorta di dialogo a distanza, per dirci le cose che non ci siamo mai detti, per superare il pudore e la timidezza» (9 gennaio 2020).
C’è il racconto diretto e senza mediazioni di cosa significa essere disabile grave in Italia, alle prese con la «burocrazia assurda con cui abbiamo dovuto fare i conti a seguito della mia malattia, e che mi fa sentire un peso per la società, qualcosa di ormai inutile e anche un poco fastidioso. Un corpo estraneo, se proprio vogliamo dirla tutta» (14 marzo 2019). E anche quello, personalissimo e unico e dunque non assoluto, di come ci si ritrova a vivere una malattia che sfida ogni convinzione e convenzione, andando al di là dei tanti discorsi di quelli che lui chiamava «moralisti da scrivania, slegati dalla realtà della malattia, della sofferenza vera, che non hanno mai guardato negli occhi una persona nelle mie condizioni; sempre pronti a spaccare il capello in quattro, capaci solo di ridurre la bioetica a un’astratta sfilza di norme» (4 marzo 2021). Soprattutto, a dispetto di quanto si possa immaginare, oltre alla rabbia per le ingiustizie di cui si è ritrovato suo malgrado vittima e testimone, oltre al dolore, tra le pagine di questo suo diario si rintracciano soprattutto tanta vita e tanto amore.
Alcuni giorni fa mia sorella mi ha inviato un post di una pagina Facebook che si intitola “L’arte di accroccare”. La foto mostrava la sponda di un letto ortopedico a cui era stata assicurata con un laccio colorato una di quelle spazzole semi rigide che si usano per pulire le unghie, e nella didascalia c’era scritto: «Salve, primo post. Non so se sia proprio un accrocco. Se lo è, lo definirei di tipo sanitario. Così mio padre può grattarsi il braccio funzionante senza dover obbligatoriamente chiamare qualcuno». Abbiamo riso, ripensando alle innumerevoli volte in cui nel corso degli anni ci siamo ritrovati a dover trovare soluzioni improbabili ai problemi piccoli e grandi che si presentavano giorno dopo giorno.
Avrei fatto a meno di scoprire cosa significa avere un padre malato, non c’è stato nulla di semplice e non ero affatto pronta al giorno in cui lui non ci sarebbe stato più. Non mi sento grata alla Sla per avermi fatto scoprire chissà cosa. È un’esperienza che non auguro a neppure al mio peggior nemico. Tutto quello che ha fatto, questa malattia disgraziata, è stato costringermi a capire che la vita è una e una soltanto, e che ogni giorno che passa è un giorno in più che ci avvicina alla nostra morte. Sembra un pensiero profondamente triste e deprimente, mentre invece è tutto il contrario: mi aiuta a ricordare che non ho alcun controllo su quello che potrebbe accadermi domani, e per questo devo fare tutto quello che è in mio potere per vivere più forte che posso il presente, cercando di non tradire la persona che sono e quello in cui credo, di coltivare il futuro rispettando i miei desideri, di cercare di dare sempre voce e spazio, ai miei desideri. Di trovare soluzioni anche laddove sembra inutile, e scoprire che una spazzola legata alla sponda di un letto può essere una soluzione, almeno per poco.
E non è un caso, in effetti, se dico sempre «mio padre è morto» e non «se n’è andato» o «ci ha lasciato». È una scelta precisa, dettata da due ragioni fondamentali. La prima, è che pure se le persone che abbiamo amato non sono con noi nel corpo, non ci lasciano mai davvero, non se ne vanno. Restano nella quotidianità dei pensieri, nelle tracce di vita che hanno lasciato in noi e per noi, nei cenni e nelle allusioni di cui si fa pieno il mondo. Non è l’amore che va via, canta Capossela in una canzone, semmai il segno fisico della presenza, ed è a questo – a questa assenza – che risulta difficile e talvolta impossibile abituarsi. La seconda, appunto, è dare un nome alle cose che ci accadono, guardarle in faccia, come unica strategia di salvezza.
Cresciamo cercando di allontanare il più possibile da noi le emozioni negative, il dolore, i dispiaceri, e questa disabitudine a ciò che fa male ha l’unico risultato di renderci persone incapaci di affrontare la vita. Di dare un nome ai nostri sentimenti, ai nostri desideri, ai nostri sogni per il futuro. Se domani dovessi non esserci più, sarei contenta e soddisfatta di quello che ho fatto oggi? È qui che vorrei stare? Sono stata in grado di dire alle persone che per me sono importanti quanto le amo? Vivo una vita che mi somiglia?
«Sarei dovuto crescere, e imparare che la vita non è una bella passeggiata, solo gocce rade di gioia in un oceano di fatica e disillusioni, e che la felicità, almeno per come comunemente la si intende, è una conquista quotidiana. È un impegno che dobbiamo sentire verso la vita, è essere capaci di ringraziare per quello che si ha piuttosto che recriminare per ciò che ci manca» (28 novembre 2019).
Venerdì 15 marzo la presentazione del libro a Roma. Lo si può acquistare online
Iscriviti alla newsletter di "è vita": ogni settimana, gratis, il meglio dell'informazione bioetica di Avvenire. Clicca QUI