Sintomi di felicità. Francesca, la pittura, la Sclerosi multipla. E una rivelazione
Francesca aveva sempre pensato che le mani fossero il filo che collegava il cuore al mondo. Da bambina, le sue dita correvano veloci su fogli bianchi, lasciando scie di colori come piccoli fulmini. Crescendo, quelle mani erano diventate più sicure, più precise, quasi fossero il prolungamento naturale dei suoi pensieri. Con loro creava mondi, raccontava storie che le parole non riuscivano a contenere. Erano il suo linguaggio segreto, il modo in cui si faceva capire, anche quando non aveva voglia di spiegare.
Poi, a ventotto anni, arrivò la diagnosi. Sclerosi multipla, come un fulmine che non porta luce, ma un’ombra che si insinua piano piano. Prima le dita iniziarono a tremare, piccoli scossoni, quasi impercettibili. Poi, quel tremore diventò parte di lei. Le tele restavano vuote, i pennelli immobili. Francesca si sentiva come se qualcuno le avesse tagliato le ali senza avvertirla. L’arte, il suo rifugio, era diventata una prigione di frustrazione e silenzio.
Per mesi la sua vita era stata un rincorrersi di esami, appuntamenti, speranze appese a qualche parola del medico. Ma la cosa più dolorosa era quella stanza vuota, lo studio che una volta aveva l’odore pungente dei colori e adesso puzzava di abbandono. Lei non riusciva nemmeno a entrare. Una tela bianca era troppo simile a quel vuoto che sentiva dentro.
Poi, un pomeriggio, passeggiando per il parco, li vide. Bambini. Ridevano, urlavano, lanciavano colori su grandi fogli sparsi sull’erba. Nessuna tecnica, nessun controllo. Le loro mani, sporche di blu e rosso, si muovevano leggere, libere. Non cercavano la precisione, ma l’emozione. Francesca restò a guardarli per un’ora intera, come se stesse assistendo a una rivelazione. Quei piccoli artisti senza regole le avevano mostrato qualcosa di dimenticato.
Quando tornò a casa, si sedette sul pavimento del suo studio. Lo ricoprì di fogli bianchi, così grandi da non poter vedere il pavimento. Prese i colori e, per la prima volta dopo mesi, lasciò andare i pennelli. Le sue mani, tremanti, affondarono direttamente nelle tinte, si sporcarono come quelle dei bambini. E cominciarono a danzare. Non era la danza leggera e sicura di una volta, ma una danza nuova, a tratti incerta, ma carica di vita. Ogni movimento, ogni sbavatura, ogni macchia sulla carta era un respiro, una liberazione.
Francesca non cercava più di fermare il tremore, lo lasciava fluire. Era diventato parte del suo gesto creativo. L’arte non era più perfezione, era un atto di resistenza. Un modo per gridare al mondo, alla malattia, che lei era ancora lì. Che, nonostante tutto, la sua anima non si era fermata. Anzi, forse era più viva che mai.
Oggi Francesca espone le sue opere per pochi intimi, parenti e amici. Suo cugino, vedendo l’ultimo quadro fatto, le ha detto che nel suo stile c’è qualcosa di completamente nuovo. Francesca ha sorriso, perché sa che non c’è niente di nuovo in quello che fa. È semplicemente tornata a quello che aveva imparato da bambina: l’arte non ha bisogno di precisione, ha bisogno di verità. «La mia malattia mi ha tolto molte cose – dice –. Ma mi ha anche dato una nuova libertà. Le mie mani non sono più quelle di una volta, ma la mia anima è più libera di danzare. E quando dipingo, è come se ballassi insieme a lei».
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