Il caso. Massimiliano, suicidio assistito in Svizzera. L'unica risposta per i malati?
Massimiliano nella foto diffusa dal sito dell'Associazione Coscioni
Un altro morto italiano per suicidio assistito in Svizzera, con la collaborazione attiva dell’Associazione Luca Coscioni, pochi giorni dopo il caso di Romano, 82enne milanese malato di Parkinson. E’ Massimiliano, 44 anni, toscano, malato di sclerosi multipla, il cui decesso in una struttura specializzata elvetica è avvenuto l’8 dicembre, annunciato dal sito dell’organismo radicale. Ad accompagnare il paziente nel luogo scelto per darsi la morte con l’aiuto del personale addetto sono state Felicetta Maltese, 71 anni, attivista della campagna radicale per l’eutanasia legale, e la giornalista e saggista Chiara Lalli, da sempre impegnata a sostegno delle iniziative per l’autodeterminazione. Entrambe sono intenzionate ad autodenunciarsi a Firenze, dove hanno dato appuntamento ai media venerdì 9, con l’intento di dare il massimo risalto a quella che l’Associazione Coscioni definisce “disobbedienza civile”. In realtà si tratta della violazione di una legge, quella penale che tuttora prevede dai 5 ai 12 anni di reclusione per chi aiuta un’altra persona a suicidarsi. Come noto, rispetto all’applicazione dell’articolo 580 del Codice penale (aiuto al suicidio) la Corte costituzionale aveva introdotto con la sentenza 242 del 2019 un’eccezione circoscritta ai casi di particolare gravità nei quali il paziente, capace di intendere e volere, soffre di una patologia irreversibile che gli procura una sofferenza ritenuta insopportabile: tutte circostanze che ricorrono nel caso di Massimiliano, che tuttavia non dipendeva da supporti vitali, criterio chiave introdotto dalla legge 219 del 2017 sulle Disposizioni anticipate di trattamento e ripreso dalla Consulta come condizione per poter ottenere la sospensione delle terapie anche se ciò comporta la morte, senza conseguenze penali per chi collabora.
Il nuovo caso di suicidio assistito in Svizzera pone dunque la giustizia davanti a una scelta: applicare la legge, non potendo coprire quello che resta un reato con la sentenza della Corte (che peraltro rimandava a una legge ancora non elaborata dal Parlamento, e che dunque non era da ritenere sostitutiva di un provvedimento normativo), oppure lasciare che attivisti pro-eutanasia continuino ad aiutare persone sofferenti nel loro eventuale intento suicidario accompagnandole oltre frontiera anche allo scopo di produrre il massimo effetto mediatico per conseguire la legalizzazione della morte assistita e dell'eutanasia come diritto. Una questione giuridica ed etica delicatissima, nella quale va dunque considerata la ricerca del “caso” clinico e giudiziario da sottoporre a un’opinione pubblica cui manca un aspetto decisivo della questione: la voce di tutti i pazienti che soffrono per malattie degenerative, come la sclerosi multipla, e che chiedono disperatamente non di morire ma di poter vivere, con tutte le cure di cui hanno bisogno. Una voce che in questi giorni, nei quali il leader dell'Associazione Coscioni Marco Cappato è stato anche premiato dal Comune di Milano, solo Avvenire è sembrato interessato a raccogliere attraverso le realtà che rappresentano i malati di sclerosi multipla. “La nostra associazione – ha detto Gianluca Pedicini, presidente della Conferenza delle persone con sclerosi multipla all’interno dell’Associazione italiana sclerosi multipla (Aism) – rispetta il volere delle persone, ma il nostro obiettivo è far sì che non ci siano più persone con sclerosi multipla che pensano a porre fine alla loro vita come unica risposta”.
Drammatica l’ultima testimonianza di Massimiliano in un video diffuso dal sito dell’Associazione Coscioni: “Sono quasi completamente paralizzato e faccio fatica anche a parlare. Da un paio di anni siccome non ce la faccio più, questo corpo è guasto, non ce la fa più così ho iniziato a documentarmi su internet su metodi di suicidio indolore. E finalmente ho raggiunto il mio sogno. Peccato che non l'ho raggiunto in Italia, ma mi tocca andare all'estero. E questa è una cosa un po' bruttina. Perché non posso farlo qui in Italia? A casa mia, anche in un ospedale, con i parenti, gli amici, vicino che mi supportano. No, devo andarmene in Svizzera. Non mi sembra una cosa logica questa. E quindi sono costretto ad andarmene via, per andarmene via”. A raccogliere indirettamente il suo appello è Pedicini, che facendosi portavoce di tutti i malati dice che “sono una persona con sclerosi multipla e vivo in sedia a rotelle, nella storia di Massimiliano mi rivedo e mi viene da dire che siamo due gemelli separati alla nascita. Lo capisco, la diagnosi ti porta ad avere paura e a pensare alla vita come a un labirinto infernale. È anche vero però che da quando vivo l’associazione, sono ancora più innamorato della vita. Posso capire la storia di Massimiliano e i suoi dubbi nel futuro. La forza e la speranza non si comprano ma si vedono negli occhi di chi sta vicino. Io, per esempio, negli occhi di mio figlio".