Scienza & Vita. Medicina più solidale, o la salute diventa un privilegio di casta
Fra essere medico e fare il medico scorre un fiume di differenze sempre più fragorose. La distinzione fra coltivare la vocazione e mettere solo a disposizione le competenze diviene netta quando si considera il rapporto medico-paziente intessuto nella società, dove albergano i ceti più agiati, ma anche gli invisibili agli occhi delle regole economiche.
È a questi ultimi che la medicina offre il suo ambito solidale, ben ancorato nella stessa società che a volte li ripudia. Nel webinar del 6 dicembre promosso da Scienza & Vita, disponibile sul canale Youtube dell’associazione, i relatori si interrogano se sia possibile diffondere una medicina solidale, prima che la medicina stessa perda la solidarietà fra le sue connotazioni.«Si stanno creando nuove forme discriminatorie legate alle possibilità di curarsi», racconta Alberto Gambino, presidente dell’associazione in collegamento da Strasburgo, dove partecipa a una riunione del Consiglio d’Europa impegnato nella discussione proprio sulle discriminazioni. «A livello di pensiero e di azione - dice - la nostra associazione cerca di disseminare best practice di chi in prima linea dà un apporto decisivo per l’integrità della salute, lenisce le sofferenze, fa in modo che la vita non sia pesante e, là dove possibile, accettabile con uno spirito di comunione». Se in passato il rapporto fra il medico e il paziente poteva anche essere paternalistico, oggi «siamo all’opposto», osserva Dario Sacchini, docente di Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. A volte l’autonomia del paziente si trova a disputare un braccio di ferro con quella del medico e il rapporto diviene contrattualistico, dove di spazio per la solidarietà ce n’è proprio poco. «Si sta navigando - spiega - verso un tipo di relazione interpretativo-deliberativo. Medico e paziente sono compagni di viaggio con ambiti definiti di competenze. Insieme analizzano il problema di salute, lo interpretano e sempre insieme deliberano il percorso». Sacchini lancia perciò l’invito a recuperare la vocazione: «Senza, la medicina rischia di diventare un ascensore sociale». E come si è visto dagli ultimi dati sulle domande alle borse di specializzazione l’impatto è immediato: vengono privilegiate le specialità che profilano il massimo del ritorno economico.
In verità è la stessa professione sanitaria a dover guardare alla strada compiuta finora. I dati dell’Anaoo Assomed parlano di oltre un quarto dei posti nelle scuole di specializzazione non assegnati quest’anno per mancanza di candidati. «Se si guarda alle scuole disertate e a quelle scelte, si vede la preferenza per la chirurgia plastica a Milano. Questo ci fa capire l’immaginario delle persone», ammette Giovanni Addolorato, direttore dell’unità di Medicina interna 2 del Policlinico universitario Gemelli Irccs di Roma. Nel suo reparto sono stati dedicati dei posti letto alle persone che vengono escluse dalle cure primarie o per le quali anche l’accesso al pronto soccorso è complicato perché non hanno documenti.
«Il budget per coprire le spese - spiega - è un falso problema. Abbiamo stabilito una rete territoriale con cui riusciamo a ricollocare le persone riducendo i giorni di ricovero. Una percentuale significativa riesce a riguadagnare salute o essere reintegrata nella società. Se si è medici, si prende in carico la persona che ha bisogno, altrimenti - chiarisce - “fai il medico” che è allo stesso tempo virtuoso, perché si offre la propria competenza, ma è un’altra cosa».
Con l’idea di formare clinici capaci di accogliere tutti, l’Università Cattolica del Sacro Cuore ha aperto la scuola di specializzazione in medicina di comunità. «Abbiamo cinque posti, significa che qualcosa si muove», aggiunge Addolorato che ne è il direttore. «La difficoltà principale incontrata - osserva - è stata di tipo emotivo perché il carico è veramente importante. Ricordo un paziente, Tudor. La prima volta che l’ho incontrato gli ho chiesto di stendersi per visitarlo. Lui si è stupito, non credeva che lo volessi toccare, e ho capito veramente quale fosse il suo bisogno: da senza fissa dimora era abituato a essere respinto». Chi si sposta e va a cercare il bisogno di salute sommerso tramite le unità di strada, nelle zone più fragili della Capitale, è Lucia Ercoli, docente di Malattie infettive dell’Università Tor Vergata e direttore scientifico dell’Istituto di Medicina solidale di Roma. «Andiamo nei palazzi occupati, nei campi non autorizzati - afferma -. Il fatto di non avere regolarità abitativa non permette alle persone di accedere ai servizi di salute». Le unità e l’ambulatorio evitano pure che le persone che non trovano risposte nel territorio si rivolgano all’ospedale, facendo salire «all’85% la percentuale di accessi ai pronto soccorso impropri», rammenta. Ma il punto è che «l’esclusione del diritto alla cura è una cartina di tornasole di altri diritti negati. Ciò che ci preoccupa - rileva - è l’aumento della popolazione italiana perché la forbice si sta allargando e dovrebbe far riflettere. Viene meno il fondamento dello stato democratico: chi si può curare oggi appartiene a una casta privilegiata».