Liverpool. Un anno fa l'epilogo della battaglia degli Evans per il piccolo Alfie
È passato quasi un anno da quella triste notte del 28 aprile 2018 quando, dopo il distacco del ventilatore, Alfie Evans morì all’ospedale pediatrico «Alder Hey» di Liverpool, a soli ventitré mesi. Il suo corpicino malato, e i volti angosciati dei genitori Tom e Kate, appena ventenni, hanno fatto il giro del mondo. Il «piccolo guerriero», come lo avevano soprannominato mamma e papà, ha respirato da solo per oltre quattro giorni prima di morire, dimostrando ai medici che aveva tutta la determinazione (e il diritto) di vivere. I genitori hanno perso la battaglia contro un sistema medico e giudiziario che riteneva «migliore interesse» di Alfie – è l’espressione usata nelle varie sentenze dei tribunali – sospendere ventilazione e alimentazione assistita. Come lui, Charlie Gard, scomparso il 28 luglio 2017, a pochi giorni dal suo primo compleanno, dopo una drammatica vicenda clinica e giudiziaria simile a quella di Alfie. Charlie aveva resistito soltanto dodici minuti, ai genitori era stata negata l’implorata consolazione di farlo morire a casa loro. Due storie molto simili, perché entrambi i piccoli erano gravemente malati. Alfie – come si è accertato mesi dopo – soffriva di una forma molto rara di encefalopatia epilettica infantile, Charlie di una rarissima disfunzione del mitocondrio. Identica la determinazione dei genitori, che non si sono mai arresi, opponendosi fino all’ultimo a chi voleva staccare la spina. Alfie «sente e interagisce», hanno sempre detto papà e mamma che volevano trasportarlo all’ospedale Bambino Gesù di Roma. A favore dei due bambini malati ha parlato anche papa Francesco, che aveva incontrato il papà di Alfie per incoraggiarlo dicendogli che «nessuno può disporre della vita umana tranne Dio». I video dei due piccoli diffusi online davano ragione ai loro genitori, sebbene siano usciti sconfitti. Kate e Tom con Alfie, come Connie e Chris, mamma e papà di Charlie, hanno combattuto i medici in ogni grado di giudizio, fino all’Alta Corte di Londra e alla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. La determinazione degli specialisti del Great Ormond Street Hospital di Londra – per Charlie – e dell’Alder Hey di Liverpool di staccare i macchinari hanno avuto la meglio. Oggi la Gran Bretagna ricorda queste due famiglie considerandole eroiche e vuole evitare tragedie simili nelle quali lo Stato, che dovrebbe aiutare i genitori a proteggere la vita dei loro figli, ha finito per ostacolarli, lasciandoli soli.
Sulla pagina Facebook Alfie Evans for ever papà Tom mostra orgoglioso il fratellino di Alfie, Thomas, nato lo scorso agosto. Vestito con un cappottino e un cappello con i pon pon azzurri – i colori dell’Everton, la squadra di Liverpool della quale Tom è tifoso – il piccolo ha 'debuttato' allo stadio per una partita contro l’Arsenal. Migliaia di tifosi li hanno applauditi ricordando quella battaglia eroica, ma purtroppo vana, di un anno fa.
«Avremo sempre due figli – hanno dichiarato Kate e Tom, i genitori di Alfie, morto il 28 aprile 2018 –. Vi chiediamo di non smettere di lottare per il valore della vita, in memoria di Alfie e nel nome di tutti coloro che hanno il coraggio di sfidare chi dice che la morte è l’unico 'migliore interesse' di qualcuno».
Benché vi fosse una probabilità su quattro che Thomas nascesse con la stessa condizione del fratello – il 'deficit di Gaba transaminasi', malattia molto rara del metabolismo, caratterizzata da encefalopatia epilettica neonatale-infantile grave e accelerazione della crescita –, papà Tom e mamma Kate hanno accettato di rischiare. E hanno avuto ragione.
Oggi investono le loro energie in una fondazione dedicata ad Alfie per aiutare bambini in condizioni simili alla sua. La scorsa estate hanno promosso insieme all’europarlamentare Steven Wolfe la Alfie’s law, una nuova legge per tutelare meglio gli interessi di genitori in conflitto con medici e giudici. Tom ha anche ricevuto in Italia il «Premio Atreju» – dalle mani del direttore di Avvenire Marco Tarquinio – mentre in Gran Bretagna l’Everton gli ha consegnato il Chairman’s Blue Blood award, riconoscimento per i tifosi che incarnano i valori della squadra.
Anche lontano da Liverpool, nell’opinione pubblica britannica e negli ambienti medici e giudiziari, ci sono importanti novità. Un articolo intitolato «Disaccordo nella cura di bambini criticamente ammalati», appena pubblicato dal «Nuffield Council on Bioethics», ente indipendente leader in materia etica, segnala che l’opinione pubblica del Regno Unito non vuole che si ripetano le sofferenze dei genitori di Alfie o di Charlie, morto in circostanze analoghe il 28 luglio 2017.
«È in corso un dibattito su cosa succede quando manca l’accordo tra genitori e medici sulle cure di minori molto malati», scrive il Nuffield. L’ente sottolinea l’importanza per i medici di «ottenere il consenso dei genitori prima di procedere a cure che potrebbero portare all’interruzione della vita di minori». Dello stesso argomento ha scritto Dominic Wilkinson, specialista in rianimazione dei neonati, responsabile di Etica della medicina a Oxford. In alcuni articoli pubblicati dal British Medical Journal e firmati insieme al collega Julian Savulescu, l’esperto – che è anche membro del Royal College of Paediatricians, organo professionale che rappresenta i pediatri britannici – ha lanciato un appello perché la legislazione britannica venga cambiata. «Tutti sono d’accordo in Gran Bretagna sul fatto che i diritti dei genitori di Alfie e Charlie non siano stati tutelati a sufficienza – ci spiega Wilkinson –. In altre aree di legislazione, come l’affidamento di minori maltrattati, si mettono da parte i genitori soltanto se costituiscono un rischio per l’incolumità fisica e psicologica dei figli».
Nel caso di Alfie e di Charlie, invece, i giudici hanno impedito ai genitori di trasportare il figlio in Italia, al Bambino Gesù di Roma, disponibile in entrambi i casi al ricovero, anche se vi erano prove che quello spostamento non avrebbe fatto soffrire i due bambini. I giudici in varie sentenze hanno fatto ricorso al criterio del «migliore interesse» dei piccoli per sostenere che dovessero rimanere in Gran Bretagna.
I due casi sono assurti al rango di precedenti in un sistema giudiziario, come quello britannico, dove i giudici per decidere si rifanno a sentenze precedenti. Il risultato è che, in questo momento, la storia giudiziaria di Alfie e Charlie può essere citata dai giudici per decidere che i genitori non possono spostare un figlio da un ospedale all’altro anche se ciò non ne compromette le condizioni di salute. È il motivo per cui, secondo Wilkinson e Savulescu, è importante che prima di esaminare cosa sia meglio per il minore si stabilisca se la cura chiesta dai genitori procuri «danni significativi» al figlio. I giudici, insomma, dovranno seguire il criterio del «migliore interesse» del minore soltanto in una seconda fase, una volta stabilito che è a rischio l’incolumità del piccolo. È questo il cambiamento più significativo che verrebbe introdotto dalla Charlie’s law, una nuova legge che vuole garantire i diritti dei genitori contro l’interferenza dei medici sostenuti dalla legge. «Mamma e papà avranno molto più potere rispetto a oggi – spiega Luke de Pulford, tra i promotori della nuova normativa –. La loro volontà dovrà essere rispettata, a meno che le cure che chiedono per il figlio non ne danneggino l’incolumità».