Firenze. «I medici assistono e curano, non uccidono»
«A nome di chi parla l'anonimo caposala dell'ospedale Careggi di Firenze, secondo cui nei reparti del nosocomio toscano l'eutanasia sarebbe una prassi praticata diffusamente e silenziosamente? Non certo a nome delle migliaia di medici e infermieri italiani che ogni giorno, questi sì silenziosamente e senza rilasciare interviste anonime, si prodigano affinché i malati, i lungodegenti, i disabili gravissimi, possano essere assistiti e curati secondo i migliori standard sanitari». È il commento di Paola Ricci Sindoni, presidente nazionale dell'Associazione Scienza & Vita, agli articoli pubblicati da «Repubblica» con l’oscura storia di un presunto infermiere dell’Ospedale Careggi di Firenze che, dicendosi cattolico e protetto da un anonimato che lascia più di un dubbio sull’attendibilità del racconto, avrebbe staccato spine di pazienti terminali per risparmiargli ulteriori sofferenze e liberare letti per altri malati. Una vicenda che ha creato comprensibilmente grande allarme tra chi si rivolge con fiducia al grande ospedale fiorentino, e notevole imbarazzo nelle autorità sanitarie e politiche regionali. Il motivo dell’operazione allestita sulle pagine del quotidiano (con un commento di Umberto Veronesi che chiede una legge sull’eutanasia) è ben spiegato da Paola Ricci Sindoni: «Assistiamo – afferma – a un rinnovato e pretestuoso attacco dei media sulla legge relativa al fine vita, in cui si mira a confondere la legittima astensione dall'accanimento con pratiche eutanasiche non giustificabili. Un pressing in cui non ci si fa scrupolo di utilizzare dichiarazioni che non solo lasciano sconcertati i privati cittadini, che si chiedono in quali mani possano finire una volta ricoverati, ma che dovrebbero mettere in allerta la magistratura, stante l'evidenza della configurazione di reati». Ma non basta: «Ci chiediamo inoltre – aggiunge la presidente nazionale di Scienza & Vita – quale sia la posizione degli ordini professionali coinvolti: davvero accettano di essere appiattiti in un generico 'così fan tutti' che, poco onorevolmente, li etichetta come inqualificabili? Il Giuramento di Ippocrate e quello dell'Infermiere non sono facoltativi, ma elementi essenziali e distintivi di uomini e donne che si mettono al servizio di altri per aiutarli a vivere, non a morire». «Riumanizzare la medicina» «Il progresso tecnologico e terapeutico schiude oggi possibilità di cura e sopravvivenza impensate fino a pochi anni fa. Dalla prassi clinica emergono inediti problemi di rilevanza medica, sociale ed etica soprattutto in quel particolare ambito temporale dell'esistenza umana nella quale ogni equilibrio si rompe e la patologia evolve in modo irreversibile. Questa fase della vita è quella più strettamente legata a percorsi di riumanizzazione della medicina». Lo afferma in una nota a commento dei presunti fatti del Careggi Filippo Maria Boscia, presidente nazionale dell'Associazione medici cattolici (Amci). «Riumanizzare la medicina – aggiunge Boscia – significa confrontarsi con il tema del fine vita e della morte e con la spesso inaccettabile sconfitta di una medicina tecnologica che vuole essere onnipotente. Proprio in questa fase i medici e tutti gli operatori sanitari attenti alla visione personalistica ritengono opportuno sottolineare i criteri di applicazione del cosiddetto principio di proporzionalità delle cure». Secondo il presidente Amci «l'operatore sanitario deve prendere atto e riconoscere che non è il decisore della vita e della morte del paziente: lui, sempre rapportandosi al malato, deve valutare le reali condizioni cliniche e perseguire il suo agire per il bene della persona», anche se lo stesso Boscia riconosce che «è difficile identificare il limite tra proporzionalità delle cure e sproporzione terapeutica, ovvero accanimento». In questi casi occorre «esaminare la storia naturale di una malattia che progredisce e identificare il momento in cui si rompe un delicato equilibrio. Per tutti gli operatori sanitari si pone il problema di un'adeguata preparazione» in modo da «definire con la massima attendibilità possibile i confini del proprio agire, operando la scelta etica di continuare le terapie o sospendere tutte le attività intensivistiche che inutilmente prolungano solo i tempi dell'agonia». Nel fine vita «occorre lavorare per rappresentare affetto, solidarietà e contatti umani», tutti «atti di spessore e rilevanza estremamente importanti in ogni alleanza terapeutica».
Oggi serve «la più grande competenza e l'attenzione a testimoniare fedeltà affettiva senza riserve. Attenzione quindi alle varie forme di abbandono», perché, conclude Boscia, «oltre alle cure mediche l'ammalato ha bisogno di amore, calore umano, comprensione e vicinanza da parte di tutti coloro che possono circondarlo di attenzioni: medici, infermieri, genitori, figli», cioè chi gli è vicino «nel momento più critico della sua vita». Boscia infine ricorda che «la Carta degli operatori sanitari sottolinea che c'è radicale differenza tra "dare la morte" e "consentire il morire": il primo è atto soppressivo della vita, il secondo accetta la vita fino alla morte».