Fondazione Don Gnocchi. «Robotica e terapie hi-tech per gli ultimi»
«La Fondazione Don Gnocchi mette a disposizione dei pazienti più fragili o che rischiano di essere trascurati le tecnologie più avanzate. In più la sua distribuzione sul territorio nazionale consente di reclutare un gran numero di soggetti per sperimentare e validare scientificamente i protocolli di cura per offrirli poi alla sanità nazionale, che è il compito proprio di ogni Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs)». Maria Chiara Carrozza, 52 anni, di Pisa, è da poche settimane direttore scientifico della Fondazione Don Carlo Gnocchi onlus: laureata in fisica e docente di Bioingegneria industriale alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, di cui è stata anche rettore, è stata ministro per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca (Miur) del governo Letta, ha fatto ricerca ponte tra neuroscienze e robotica, fondato una start-up e si è occupata di protezione della proprietà intellettuale; dal novembre 2016 è anche presidente del Gruppo nazionale bioingegneria.
Dal curriculum sembrerebbe la persona giusta al posto giusto, è così?
Sono venuta qui spinta da una forte motivazione, perché conosco la Fondazione da quando ho favorito la convenzione tra la Scuola superiore Sant’Anna con il Centro Don Gnocchi di Firenze. Abbiamo creato un laboratorio congiunto (MARe Lab), dove ho lavorato come ricercatrice. Mi sento di continuare la lunga tradizione di collaborazione tra la bioingegneria italiana e la Fondazione Don Gnocchi. L’esperienza che ora affronto rappresenta un po’ il completamento del mio percorso nella bioingegneria: la ricerca traslazionale punta infatti a portare i suoi risultati direttamente a beneficio del paziente, nel suo percorso di riabilitazione, per accompagnarlo al recupero della sua vita sociale, affettiva, lavorativa, limitando anche i costi per la famiglia e per la società.
La tecnologia robotica in ambito sanitario è un aiuto o rischia di snaturare la relazione di cura?
La Fondazione Don Gnocchi ha una grandissima forza che è l’etica della centralità della persona, concentrandosi sui suoi bisogni piuttosto che sull’aspetto scientifico puro. L’obiettivo della tecnologia è trasformarsi in un protocollo di riabilitazione: se per un ictus un paziente subisce un’emiparesi, il terapista lo aiuta con una ginnastica specifica, per esempio a recuperare il movimento del braccio. Questo esercizio può essere fatto anche con il supporto di una macchina: il paziente indossa un manipolatore e, sotto la supervisione del terapista, viene stimolato a compiere movimenti attraverso un’interfaccia specifico o un videogame. Il braccio robotico misura esattamente la forza esercitata, il movimento residuo e fornisce al terapista – che resta al centro del programma di riabilitazione – una serie di parametri utili. Fino a quando il soggetto riapprenderà il movimento corretto e riuscirà a compierlo in modo autonomo. Centrale resta comunque l’intenzionalità da parte del paziente, non è mai un movimento passivo: è anche una sfida cognitiva.
Quali risultati sono stati già ottenuti?
Di recente sono stati presentati a Roma i dati preliminari di una ricerca dei centri Don Gnocchi che confermano l’efficacia della riabilitazione robotica o tecnologicamente assistita. Però il percorso è ancora lungo: vogliamo dimostrare l’efficacia di questi strumenti molto potenti nelle mani del terapista. Il valore di questo studio sta nel fatto che ha riguardato 8-9 centri in Italia, coinvolgendo un numero significativo di pazienti. Lo studio multicentrico è fondamentale per il processo di validazione delle terapie, da poter poi offrire alla sanità nazionale e regionale. E un altro punto di forza della Fondazione è proprio la sua presenza diffusa sul territorio nazionale (in nove regioni dal Piemonte alla Basilicata, ndr): questo permette anche di ridurre la disuguaglianza sociale nell’accesso alle cure, portando la riabilitazione il più possibile vicino a dove il paziente vive. La ricerca della Fondazione non riguarda solo la robotica, ma anche le nanotecnologie per la diagnostica, i marcatori per la sclerosi multipla, altre tecniche o terapie puramente mediche, o di imaging biomedicale, il neuroimaging.
Come vede quindi il suo compito di direttore della ricerca della Fondazione Don Gnocchi?
Sono affascinata dall’idea di trasformare categorie deboli in categorie che sperimentano gli strumenti più all’avanguardia e che hanno la possibilità, con un piccolo sforzo, di vivere meglio una malattia o una disabilità, evitando che diventi causa di grande solitudine. Persone che per le loro disabilità sono considerate deboli e bisognose diventano protagoniste di un rilancio tecnologico e delle sperimentazioni più all’avanguardia: le protesi per gli amputati sono sempre state molto semplici e uno stigma di disgrazia; oggi un ginocchio elettronico è un grande risultato della bioingegneria, con materiali sofisticati e strumenti avveniristici come il neurocontrollo. Mio obiettivo è quindi lavorare nella tradizione della Fondazione in questo ambito di malattie rare e neurodegenerative, i cui pazienti sono spesso considerati solo un costo sociale e hanno a disposizione pochi farmaci e risorse. La potenza del messaggio di don Gnocchi (che voleva poter offrire il meglio ai suoi pazienti) è proprio rovesciare la medaglia: trasformare un destino che sembra negativo e di marginalità in qualcosa che serve alla sperimentazione di nuova scienza e quindi farne un punto di forza.