Vita. «Riproduzione collaborativa»: a New York l'utero in affitto ora si chiama così
Foto archivio Siciliani
Un’altra «legge antiquata» (sic) che sarà superata con l’attivismo del governatore dello Stato di New York, il democratico Andrew Cuomo. Pochi giorni dopo aver allargato i termini per l’aborto legale fino al nono mese di gestazione, ecco che l’Empire State si appresta ad aggiornare anche la sua normativa sulla maternità surrogata. Via libera a quella commerciale, regolata da contratti di compravendita, prontamente ribattezzata collaborative reproduction.
Il «Child-Parent Security Act» è stato inserito nelle pieghe del bilancio esecutivo dello Stato per il 2019, e si avvia verso l’approvazione, grazie alle Camere ora dominate dai democratici. Consentirà ai cittadini di fare ciò che finora era proibito: pagare per avere un bambino arruolando una donna «portatrice». La normativa in vigore nello Stato fu varata nel 1992 sulla base del concetto che la maternità surrogata – allora ai primi passi, senza utilizzo di ovuli di donatrice – non fosse distinguibile dalla vendita di neonati, né rispettosa della dignità delle donne, dei bambini e della riproduzione umana. Quindi si proibiva il pagamento di una madre surrogata ma non gli accordi volontari e gratuiti, assimilando il caso a una adozione pre-parto, di cui peraltro si dovevano seguire le procedure dopo la nascita, dunque non escludendo un ripensamento della madre. New York dunque si adegua a ciò che accade in altri Stati Usa con la privatizzazione della 'gestazione per altri' (Gpa).
Esultano gli attivisti per i diritti civili: i «genitori intenzionali» newyorchesi non saranno più costretti a volare in California o altrove per avere mano libera. Di più: le «madri portatrici» residenti potranno stipulare contratti con «genitori intenzionali» da ogni parte degli States.
Le voci critiche, per contro, sono piuttosto flebili. La «surrogata gestazionale» (in cui la madre portatrice non ha alcun legame genetico con il bambino) del resto «è ormai una pratica comune e accettata», come ha scritto l’Organizzazione nazionale delle donne (Now, femminista) di New York, con un fondo di verità: negli Usa infatti la resistenza è assai blanda rispetto alla forza dell’industria della fertilità ( Big Fertility). «La Gpa – spiega Daniela Bandelli, sociologa all’Università Lumsa di Roma, impegnata in una ricerca mondiale sulla maternità surrogata – è proposta come un metodo per realizzare il desiderio di genitorialità. Il bambino è il mezzo, e viene dopo le priorità dell’adulto.
Guai a mettere in discussione il potere individuale di autodeterminazione...». Nel 2015 in California è nata per iniziativa di Jennifer Lahl, la campagna «Stop Surrogacy Now» per l’abolizione universale della Gpa, che oggi rappresenta 20mila persone in tutto il mondo ma che – continua Bandelli – «sembra essere più popolare in Europa che negli Usa, dove né il femminismo né il movimento pro-life fanno seria opposizione. Anzi, nel femminismo americano tende a prevalere il dogma dell’autonomia della donna, che tutto può, incluso mettere a disposizione il suo corpo sul mercato riproduttivo. È probabile che il femminismo non deroghi al principio- guida dell’autonomia della donna perché teme di esporsi a una ri-negoziazione sull’aborto, che in America tuttora infuoca il dibattito. Sorprendente è che nel movimento pro-life sembri prevalere l’imperativo di famiglia a tutti i costi, anche quando ciò comporta la mercificazione del bambino e della donna».