Ricerca. Mantovani: l’Italia eccelle e ha giovani di talento. Ma manca un “sistema”
L'équipe di Alberto Mantovani all'Humanitas
Andiamo fieri dei grandi inventori italiani, ma come si ammirano gli eroi solitari, capaci di eccezionali imprese per il loro genio. Un po’ lo stesso errore cognitivo che si riscontra oggi davanti ai nostri nomi al vertice della scienza: quasi contasse solo l’eccezione e non la regola, il campione e non il team. La ricerca scientifica in Italia sconta problemi strutturali enormi, ma produce personaggi di fama mondiale (e dietro di loro un gruppone di scienziati di notevole levatura). Alberto Mantovani è un caso esemplare. Una recente classifica mondiale stilata con punteggi che tengono conto di pubblicazioni scientifiche e citazioni in lavori altrui lo vede al primo posto in Italia anche nel 2023, 63esimo assoluto (dietro uno stuolo di americani), quinto tra gli immunologi. Presidente a Rozzano (Milano) di Fondazione Humanitas per la Ricerca, sta per ricevere l’ennesimo premio internazionale, stavolta dalla Federazione europea delle Società di biochimica.
Alberto Mantovani, presidente della Fondazione Humanitas per la Ricerca - Fabio Oriani images
Professore, proviamo a spiegare questo paradosso molto italiano: un Paese che investe pochissimo in ricerca ma che annovera molte eccellenze scientifiche.
Questi ranking mi stimolano due considerazioni. Anzitutto mi chiedo: io e il mio gruppo cosa abbiamo scoperto? Che impatto di conoscenza e di miglioramento della salute abbiamo ottenuto? Ho aiutato a crescere persone indipendenti, a costruire un buon “nido” nel quale sono cresciute figure importanti in ambito clinico e scientifico? Penso a un lungo elenco di persone con le quali ho lavorato e che non mi piace definire “allievi” perché in realtà mi sono stati maestri. È vero che nei riconoscimenti c’è il mio nome ma a contare è il gruppo, chi ha collaborato con me, anche giovani da tante nazioni. Vorrei aggiungere che posso contare oltre che su medici e ricercatori, su tecnici straordinari, i migliori del mondo, e lo stesso vale per gli infermieri, troppo spesso dimenticati. Se il nostro lavoro di ricerca ottiene un grande impatto in medicina il merito è di tutta l’équipe.
Quali condizioni sono necessarie in Italia per arrivare a livelli di eccellenza?
Fare ricerca nel nostro Paese è più difficile che altrove, per tanti motivi. Da noi si deve nuotare controcorrente perché la ricerca è sempre stata “figlia di un dio minore”, ma nonostante questo ce la si può fare. Certo, a condizione di lavorare tanto, un po’ più che in altri Paesi. Determinante è disporre di istituzioni di dimensione internazionale. E poi, serve quello che in Italia abbiamo in misura straordinaria: i talenti. Credo che l’impatto della ricerca fatta nel nostro Paese sia un vero esempio di miracolo italiano. Le faccio un esempio. Tempo fa l’Associazione medica americana ha realizzato uno studio sull’impatto della ricerca in oncologia per singoli Paesi: normalizzando i dati, in relazione cioè alle dimensioni nazionali, l’Italia è risultata al secondo posto assoluto, alle spalle del Regno Unito e davanti agli Stati Uniti. Nonostante le difficoltà, chi fa ricerca in questo Paese davvero fa miracoli.
Allora proviamo a rovesciare il punto di osservazione: quali sono i nostri punti di forza?
Abbiamo a disposizione una grande competenza tecnica, un fattore che va custodito con scuole all’altezza. Sono pronto a fare la partita con chiunque al mondo: vinciamo noi. E lo stesso vale per il personale infermieristico. Ma c’è un altro fattore decisivo: l’Italia ha un grande livello di generosità della società civile, con la quale compensiamo la carenza dell’intervento pubblico. Pensiamo all’Associazione italiana per la ricerca sul cancro, che finanzia 140 milioni di euro all’anno, tutti gli anni, non in modo occasionale o episodico. È una delle molte presenze affidabili, come la Fondazione Humanitas per la Ricerca, sostenuta da privati. Un altro fattore importante è il sistema della scuola e dell’università che ci permette ancora di competere alla pari con Paesi dove il finanziamento è molto superiore. Un Paese che investe meno della metà dei suoi competitori principali in istruzione superiore e meno di un terzo in ricerca scientifica sforna giovani che mediamente arrivano secondi – battuti solo dalla Germania – nei bandi “starting” (cioè per i più giovani) di Erc, lo European Research Council, vale a dire il più alto livello di competizione europea per finanziamenti alla ricerca, davvero molto difficili da vincere perché hanno l’ambizione di sostenere ricerca fortemente innovativa, quella che viene chiamata “High risk, high gain”, capace di far compiere un salto di qualità significativo nelle conoscenze. Un fatto davvero incredibile.
Si parla da tempo della necessità di far compiere alla nostra ricerca scientifica un salto di qualità. Perché poi non accade?
È una trascuratezza di lungo periodo, e assolutamente bipartisan. Lo standard minimo internazionale di spesa per la ricerca è di 2,5% sul Pil, con punte del 6. L’Italia resta sotto l’1,5%, e manca la programmazione a lungo termine. Adesso sono disponibili molte risorse dal Pnrr, ma è un po’ come una bomba d’acqua: senza una pianificazione non si vede cosa succederà dopo. La ricerca va innaffiata goccia a goccia, investendo risorse su un orizzonte temporale ampio. Il nostro sistema poi ha alcune rilevanti anomalie: sebbene il ministero della Salute sia molto presente, manca uno sportello affidabile per la ricerca fondamentale. Se avessi accettato le proposte di lavoro negli Stati Uniti, so che avrei potuto contare tutti gli anni sugli “R01”, i finanziamenti per la ricerca indipendente individuale. Un fattore decisivo, che in Italia non esiste. Non è un problema “genetico” del nostro Paese: dovremmo semplicemente adottare il modello di affidabilità delle fondazioni private, le charities, che hanno visione e pubblicano bandi sapendo cosa serve e dove sta andando la ricerca.
Cosa l’ha convinta a restare in Italia?
Anzitutto sono innamorato del mio Paese, e poi ho avuto sempre la fortuna di lavorare in istituzioni di dimensioni internazionale in cui c’era grande libertà e finanziamenti che mi hanno consentito di sviluppare la mia ricerca. Non so poi se all’estero avrei trovato i tecnici così bravi e dedicati che hanno lavorato con me.
Perché un giovane con ambizioni per eccellere nella ricerca oggi dovrebbe restare in Italia?
Un’esperienza “fuori” è normale, anzi, necessaria per formare, aprire la mente. Il problema è essere attrattivi per i cervelli, italiani e non. L’oro del terzo millennio non sarà giallo come l’oro o nero come il petrolio, ma grigio come i cervelli. E il nostro Paese sta perdendo questa gara. Ci sono però istituzioni pubbliche e private in grado di calamitare chi sta facendo la sua esperienza all’estero.
Sempre e solo eccezioni?
Se guardiamo gli indici della ricerca, una partita Italia-Germania ce la giochiamo alla pari, siamo addirittura superiori sui dati di un’area a elevata densità di ricerca come la Lombardia. Ci sono molte istituzioni, pubbliche e private, dove si può fare ricerca di alto livello e nelle quali vale la pena “rientrare”. Dove la competizione diventa impari invece è nel trasferimento tecnologico, cioè nella traduzione della ricerca in brevetti: il rapporto tra Italia e Germania qui è di uno a cinque. E questa inadeguatezza del sistema-Paese ha una ricaduta negativa diretta sulle opportunità per i giovani, di lavoro, di crescita, di occupazione qualificata.
Cosa devono fare le istituzioni?
C’è un tema indubbio di investimenti, lo dicono i numeri. Ma ancor di più c’è il nodo della programmazione, che il flusso di denaro del Pnrr sta nascondendo. Serve un’ossatura del sistema che gli conferisca solidità, costanza, “normalità”.
Di recente lei ha firmato con 13 colleghi – come il Nobel Giorgio Parisi, Silvio Garattini e Franco Locatelli – un appello per il Servizio sanitario. Cosa propone per metterlo in sicurezza?
Voglio continuare a vivere in un Paese in cui c’è un Servizio universalistico, che consenta a una persona di preoccuparsi del suo tumore e non dei costi della diagnosi e della cura. La formula che mi viene in mente per il futuro è fondata sulla qualità, e composta da quattro parole: risorse, efficienza, appropriatezza (senza cioè sciupare denaro in test diagnostici e farmaci per la gran parte inutili) e ricerca. Le iniziali di queste parole compongono il vocabolo inglese “Rear”, che significa “dietro”: ecco, dietro a una buona cura universale vedo questa combinazione virtuosa di punti fermi. Ai quali vorrei aggiungere un altro aspetto dell’universalità: l’attenzione ai più fragili, in Italia e nel mondo. Ci sono ragazzi fantastici cresciuti nelle nostre università che vanno in ospedali africani a fare un pezzo della loro scuola di specialità, ad esempio con il Cuamm di don Dante Carraro. Quando li vedo mi si allarga il cuore e divento ottimista per il futuro.