Riccardo Mensuali (Pav). “Far fiorire” ogni vita, perché in ciascuna c’è un disegno
Don Riccardo Mensuali con una ospite di una iniziativa per le persone indigenti
In occasione della 46ª Giornata per la Vita – 4 febbraio – i vescovi italiani hanno scritto, nel loro Messaggio: «Una civiltà autenticamente umana esige che si guardi a ogni vita con rispetto e la si accolga con l’impegno a farla fiorire in tutte le sue potenzialità». Sono parole importanti che colpiscono, di questi tempi. “Far fiorire” rimanda a una possibile identità dell’umano che il Vangelo conosce bene: assomigliare a Dio che è seminatore di semi buoni perché diventino piante grandi e rigogliose, coltivare vigne perché diano frutti buoni.
Richiamano a un particolare “sguardo” sulla vita: quello che vi scorge una potenzialità, ricchezza di bene possibile, un fiore che prima era soltanto seme. Ma ai nostri giorni, e fra di noi, più che far fiorire sembriamo impegnati a far appassire. Come ci guardiamo gli uni gli altri? Molti avvertono che è come se fosse aperto un processo alla nostra vita, che invece di sperare fiori cerca motivi per condannare.
Scrive Franco La Cecla: «Il soggetto si butta nella mischia del quotidiano, apparete difeso dalla sua faccia, ma la può perdere alla prima occasione che non controlla pienamente. C’è, in questo, un’idea della società come una giungla d’asfalto, dove è possibile mettere il piede in fallo e scomparire».
Gli occhi altrui ci giudicano male, sull’orlo del fallimento, come se questo scoprirci fallaci coincidesse col migliorarsi dello sguardo di chi osserva. Non sappiamo bene come, ma pare di vivere, tra la vicina di casa, i familiari, i colleghi, i social e la televisione, in un mondo di giudici: un tribunale all’aria aperta. Tutte persone che in virtù della loro presunta perfezione non potranno che spendere la loro vita se non per osservare e giudicare me. Io sono il loro processo. Se questo, o uno simile, è lo sguardo sugli altri, la conseguenza è che il valore stesso della vita umana va diminuendo. Che gli altri contino poco, che il loro valore come persone sia scadente pare solo, purtroppo, la conferma di un pregiudizio. Di uno sguardo malevolo o banale e distratto. E allora l’altro non è più un “fiorire” possibile ma qualcosa che posso scartare senza troppa colpa: vale poco.
L’“impegno a far fiorire” presuppone una consapevolezza del profondo di ogni vita: che ci siano frutti nascosti che possono sbocciare se qualcuno si prende cura del seme e della sua crescita. Nel 1978, a pochi mesi dalla sua elezione, San Giovanni Paolo II scriveva: «Il libro della Genesi, parlando dell’uomo come immagine di Dio, fa intendere che la risposta al mistero della sua umanità non si trova nella strada della somiglianza con la natura. L’uomo somiglia più a Dio che alla natura». Bisogna riscattare e promuovere questa somiglianza, offuscata dal peccato e dal male. L’inadeguatezza non è una condanna.
Il messaggio dei vescovi osa mettere insieme e legare fra loro vite e storie le più diverse, all’apparenza non destinate a un discorso unitario: i figli che vengono scartati e non fatti nascere da una mentalità anti-generativa, i profughi che possono essere abbandonati in mare solo perché dovevano pensarci meglio a partire, i malati gravi che portano il peso di giorni prossimi alla fine dell’esistenza, i più faticosi e difficili. La vita delle donne, ancora troppe volte soggetta al muscolo esteriore maschile perché quello interiore non è stato curato. Si potrebbero ricordare i carcerati, su cui si posa uno sguardo a volte rabbioso e insofferente, che più che alla riabilitazione aspira a gettare la chiave della cella.
Non ci possiamo dividere su questa visione unitaria della vita da far fiorire e sostenere. Eppure, c’è chi ritiene obsoleto fare figli nella forma classica e più urgente accogliere quelli degli altri o produrli come merce. C’è chi consiglia o proclama di fare figli solo italiani per aiutare la patria, alzando muri contro i figli degli altri solo perché sono nati lontano. Sono divisioni senza senso e poco fruttuose. “Far fiorire la vita” è responsabilità e impegno che nasce da uno sguardo diverso. Ogni vita domanda i propri fiori, la propria crescita. Coltivare la vita, curarla sarà frutto di uno sguardo nuovo e diverso: quello che intuisce che dietro ogni vita, dovunque sia sorta e qualunque età abbia, c’è un disegno più grande e generoso del nostro, quello di Dio che a Natale si è fatto Padre per indicare anche a noi una strada possibile: lasciare che un altro fiorisca, oltre a me.
Per questo, però, sarà necessario tornare a considerarla un dono, un regalo, la vita. Non una nostra produzione, un risultato più o meno efficiente, o una mercanzia del grande mercato di tutto. Uno sguardo più libero da pregiudizi, accogliente e incuriosito sarà l’unico capace di sorprenderci e stupirci. Come ricorda il messaggio della Cei: «Quanti poveri, semplici, piccoli, immigrati... sanno mettere il poco che hanno a servizio di chi ha più problemi di loro… Quanto spesso il bambino non voluto fa della propria vita una benedizione per sé e per gli altri».
Gli italiani sono stati definiti, da un’indagine che li descrive, come dei “sonnambuli”. Che sono coloro che camminano senza vedere, non si accorgono di quel che li circonda. Avanzano senza osservare. Eppure, in questo tempo, molta vita vorrebbe essere guardata per vivere, moltiplicarsi, essere accolta e portare frutti. Nel famoso film The Truman Show si ascolta questa sentenza. «Gli esseri umani generalmente accettano il mondo così come viene loro presentato». La vocazione cristiana è l’esatto contrario: trasformarlo a partire da uno sguardo nuovo che è speranza di bene a venire.
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