Vita

Il libro. Da "voglio morire" a "voglio vivere", la svolta grazie all'amore che cura

Antonella Mariani giovedì 6 giugno 2024

Un ritratto di Roberta Migliarini

Roberta vorrebbe morire, e lo ripete decine di volte, declinato in altrettanti “perché”: «Perché non esco quasi più, perché smetterei di soffrire, perché non posso più toccare i capelli di mia figlia, perché sono stufa, perché in un istante sono diventata anziana ». In realtà anziana non è, Roberta Migliarini. Ne aveva 49 quando, donna realizzata, un lavoro importante e l’hobby del disegno, inizia a perdere l’equilibrio. Una notte cade per terra: «È stato il punto del non ritorno, e l’inizio della paura», scrive nel libro che ha faticosamente dato alle stampe, “Preferivo fare la fila” (Scepsi & Mattana, euro 10).

Da quella notte, tutto precipita: Roberta cammina sempre peggio, non ha il controllo delle mani e delle gambe. Iniziano le visite mediche, gli esami sempre più approfonditi, i ricoveri. Fino alla diagnosi, spietata: atassia cerebellare paraneoplastica, un evento rarissimo, conseguenza di un tumore ovarico. Roberta perde progressivamente le sue facoltà. Oggi parla e si fa capire, ma la quotidianità è una tortura. Il tronco e gli arti non rispondono, ogni gesto è una fatica e ha bisogno di un aiuto. E comincia così la sfilza del “vorrei morire”: «Perché non so più nutrirmi e bere da sola, perché mi sento in trappola, perché tutti compresi mio marito e mia figlia o fanno finta di niente o scappano».

Il libro racconta i 6 anni successivi, fino a oggi: la fisioterapia aiuta, ma Roberta sa che non potrà mai più camminare o tenere un bambino in braccia. Marito e figlia sono vicini, ma lei ha l’impressione, con la sua sensibilità divenuta ipertrofica, che la sopportino a malapena e li vede allontanarsi ogni giorno di più. «Quello che vivo è un dolore incolmabile che a volte loro non riescono nemmeno a immaginare». Prega Dio, Spirito Santo e Gesù, Roberta, che la aiutino a portare questa croce troppo pesante. La malattia isola, rende difficile parlare e ogni giorno è peggiore del precedente: contempla di farsi portare in Svizzera a farla finita, ma il marito Paolo invece si rivolge al progetto Città della Vita, che a Roma offre supporto ai malati e alle loro famiglie.

A casa di Roberta arrivano due volontarie qualificate, Silvana e Tina. La prima diventa la sua psicologa, la seconda una cara amica. Lo sconforto cresce, i rimpianti anche («Non posso stringere mia figlia Marta, né accompagnarla per scegliere il vestito per i 18 anni»), così come il bisogno di affetto, di comprensione, di non sentirsi inutile. E quindi «vorrei morire perché ho capito che per la società io non conto più nulla».

C’è dolore nell’accorgersi di essere cambiata agli occhi del marito, ma lei vorrebbe dirgli: «Guardami, sono sempre io!». Roberta parla con Avvenire in videochiamata, affiancata dall’amica Tina che la aiuta a esprimere al meglio le sue emozioni. E si capisce che il lungo, interminabile elenco di “vorrei morire” che si legge nel libro nasconde in realtà altrettanta speranza di vivere. «I limiti imposti dalla malattia mi tolgono la forza, vivo in un presente esteso. Ma la ferita che mi porto appresso mi ha insegnato tanto. Io so che ho molto da dare agli altri. La vita non è infinita e questo vale per tutti: occorre riconoscere ciò che vale davvero».

La conclusione ribalta le premesse: nella vita di Roberta, «una vita senza nulla» c’è la sofferenza ma c’è anche l’amore. Quello dei familiari e delle volontarie divenuta amiche, di don Stefano, con il quale «anche i silenzi sono carichi di significato», del fisioterapista Francesco con il quale le risate sono tante, di Annamaria che la fa disegnare tenendole le braccia che tremano… «Roberta è riuscita, anche suo malgrado, a rendere la sua vita feconda per gli altri», osserva Tina. E allora pian piano il “voglio morire perché” diventa nelle pagine conclusive “voglio continuare a vivere perché”: perché «finché esiste il Bello, il brutto non può vincere», «perché voglio vedere il futuro di mia figlia», «perché da questa malattia ha imparato molte cose e ne ho ancora molte da imparare », «perché ancora posso pregare per gli altri e donare la mia sofferenza».

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