Progetto Airc. «Nel mio laboratorio cresce un vaccino contro il tumore»
Maria Rescigno
Fare qualcosa con determinazione per il bene comune non è mai uno sforzo vano. Se poi si aggiungono capacità e impegno continui, allora prende consistenza la complessa trama della ricerca scientifica che mira a sconfiggere le malattie. Questa è la storia umana e professionale di Maria Rescigno, ricercatrice Airc e docente di Patologia generale presso Humanitas University di Milano. Grazie a un progetto speciale finanziato dalla Fondazione Airc, nell’ambito delle indagini sulla malattia metastatica che è la causa nel 90% circa dei decessi per cancro, sta lavorando a una sorta di vaccino universale contro alcuni tipi di tumore quali melanoma, sarcoma e osteosarcoma, da utilizzare in combinazione con l’immunoterapia per aumentarne l’efficacia. Il progetto ha già superato step preclinici e studi su modelli animali.
Decisivo il contributo della Fondazione Airc che nel 2022 ha messo a disposizione della ricerca contro il cancro nel complesso oltre 136 milioni di euro – di cui più di 70 provenienti dal 5xmille –, fondi destinati a oltre 400 progetti di ricerca e a 8 programmi speciali, tra cui proprio quello di Maria Rescigno. Un impegno straordinario che ha contribuito alla costante riduzione dei tassi di mortalità per cancro nel nostro Paese: tra il 2015 e il 2021 si è registrata una diminuzione del 10% negli uomini e dell’8% nelle donne.
Professoressa, come è giunta a definire questo promettente filone di ricerca?
Mi lasci innanzitutto ringraziare Fondazione Airc e tutti coloro che hanno destinato il loro 5xmille alla ricerca perché è veramente questo il motivo per cui stiamo piano piano passando dal laboratorio al letto del paziente. Da oltre dieci anni mi dedico allo studio del comportamento della cellula tumorale che, in condizioni di stress – quello provocato dalla stessa trasformazione oncogena – è in grado di rilasciare dei peptidi – chiamiamoli "bandierina" – in grado di innescare una risposta immunitaria. In poche parole, osservando più pazienti affetti dallo stesso tipo di tumore (in questo caso il melanoma) abbiamo identificato ben 7 peptidi comuni. Li abbiamo così testati in vitro sia su cellule malate che su soggetti sani, confermando la loro immunogenicità. In questo momento stiamo identificando queste molecole nell’osteosarcoma, ma il primo incoraggiante risultato ci ha indotti a proseguire mettendo la tecnologia a disposizione anche della veterinaria, grazie a fondi donati da un privato. Abbiamo osservato che nei cani affetti da osteosarcoma, una volta trattati, non si sviluppano recidive.
Quali sono dunque le prossime tappe?
Per giungere alla sperimentazione sull’uomo occorre che il protocollo clinico messo a punto superi il vaglio dell’Istituto superiore di Sanità e, nel frattempo, abbiamo lavorato per definire la procedura di produzione del vaccino, con relative analisi di stabilità e tossicità, e poi anche per mettere a fuoco il monitoraggio a cui saranno sottoposti i pazienti trattati rispetto ai possibili effetti della terapia. È interessante, inoltre, aver notato che un peptide è comune sia al melanoma che al sarcoma. Soprattutto, a oggi si può ipotizzare che la tecnica possa essere applicata non solo ad altri tipi di tumore ma anche ad altre patologie. Insomma, il nostro è un treno in corsa e stiamo facendo il possibile, grazie a un imprescindibile lavoro integrato di équipe. Nel mio laboratorio sono affiancata da una ventina di persone con cui è veramente un piacere lavorare. Voglio ancora sottolineare l’importanza di Airc che finanzia studi che all’inizio sono solo ipotesi e non troverebbero facilmente investitori perché il rischio è molto alto.
Quali riflessioni le ispira la sua esperienza umana e professionale?
Se penso che all’inizio mi sono occupata di un enzima prodotto da un batterio sconosciuto e non trovavo grossi stimoli... Però ricordo bene, frequentando l’Istituto europeo di Oncologia, che parcheggiavo il motorino vicino al piano "meno 1" dove i pazienti oncologici seguivano le terapie, spesso con tanta sofferenza. Ecco, non ho potuto fare a meno di ritrovare dentro di me le giuste e forti motivazioni che si sono focalizzate sull’obiettivo di sviluppare cure efficaci con pochi effetti collaterali. Ho visto l’immunoterapia fare progressi fino a cambiare il destino dei pazienti, cosa può valere la pena più di questo? Posso aggiungere che condivido questo sforzo con la famiglia, in particolare i miei due figli che hanno capito l’importanza del mio lavoro, e quando ci sono stati dei sacrifici da fare li abbiamo fatti tutti insieme. Chi fa ricerca in Italia deve essere per forza altamente motivato, i fondi sono molto limitati e non esistono infrastrutture. Ma anche il costante sostegno e la fiducia delle persone nel nostro lavoro ci spinge a un miglioramento continuo e a proseguire nella strada che renda il cancro una malattia sempre più curabile.