Frontiere. Potenziamento cerebrale: è doping?
Il 23 luglio si apriranno i Giochi olimpici di Tokyo. Anche se alla vigilia dell’evento gli auspici di fair play nelle competizioni sono doverosi e benvenuti, lo spettro del doping aleggia costantemente su molte discipline.
A fianco della farmacologia, negli ultimi anni una nuova forma tecnologica di sostegno alla prestazione si è affacciata alla ribalta ed è facile immaginare che qualche atleta vi farà ricorso, dato che per ora non rientra nella lista degli interventi proibiti. Stiamo parlando della tDCS, acronimo inglese della stimolazione cerebrale a corrente diretta.
Questa forma di stimolazione agisce grazie agli effetti di neuromodulazione, ovvero alla possibilità di favorire l’eccitabilità e la capacità di scarica dei neuroni con l’applicazione di deboli correnti (12 microampere) grazie a elettrodi. L’apparecchio non è costoso, non sembra generare effetti collaterali ed è semplice da utilizzare. In laboratorio la tDCS è stata sperimentata soprattutto in soggetti sani, per provare a potenziare le capacità matematiche, di lettura e di memoria, l’umore, la percezione, l’apprendimento, i processi decisionali, la creatività e persino il ragionamento morale.
Utilizzi terapeutici sono testati per la depressione e l’emicrania.
Ma sembra che la tDCS possa potenziare anche le abilità motorie e venire utilizzata con successo in campo sportivo, in particolare da atleti professionisti. Studi recenti hanno mostrato che la tDCS, se utilizzata prima della prova, può sia aumentare la potenza sia ridurre la sensazione di fatica, aumentando la resistenza.
Un’azienda ha rivelato che alcuni atleti (nessuno vincitore di medaglie), nella scorsa edizione delle Olimpiadi, sono ricorsi al suo modello di tDCS.
Va detto che molti scienziati sono scettici sulla reale efficacia della stimolazione a corrente diretta. Tuttavia, la Wada, l’autorità anti- doping, sta valutando se considerarla una forma di intervento illecito, da mettere al bando. Ciò riporta d’attualità un dibattito che, soprattutto, nel mondo anglosassone, è in atto circa l’uso che dovremmo fare delle nuove scoperte in campo neurobiologico.
Il termine chiave è human enhancement (traducibile con 'potenziamento umano') e prevede sommariamente due schieramenti: i bioconservatori e i bioliberali. I primi vedono l’implementazione di varie biotecnologie come una minaccia alla natura umana, i secondi come un’opportunità – se non addirittura una necessità – per migliorarci sempre più. Questa polarizzazione del dibattito è però un po’ datata e risale al periodo iniziale in cui il potenziamento veniva contrapposto alla cura: mentre gli interventi fatti a scopo terapeutico servivano a riportare una persona a livello di normalità medio o precedente, gli stessi interventi finalizzati al potenziamento venivano applicati a persone sane per andare oltre la 'normalità'.
Casi di ’potenziamento fisico’ come quello di Oscar Pistorius – l’atleta escluso dalle Olimpiadi di Pechino del 2008 perché si ritenne che le sue protesi alle gambe (necessarie per correre, quindi terapeutiche per un verso) di fatto gli conferivano un vantaggio sui normodotati – hanno però contribuito a rendere le cose più complicate. Se un intervento terapeutico è al contempo un potenziamento, è difficile tenere in vita la distinzione.
Certamente meno mediatico, negli ultimi anni si è andato affermando un fenomeno sociale connesso: il cosiddetto ’potenziamento cognitivo’. Questo tipo di potenziamento che – a prima vista – sembrerebbe creare meno problemi etici, vede la sua giustificazione nell’ipotetica universalizzazione dei suoi effetti: se abbiamo la possibilità di apprendere di più e più velocemente, perché non farlo? Perché non utilizzare sostanze e tecnologie in grado di fornirci una spinta aggiuntiva verso l’innata tendenza ad andare oltre che l’essere umano ha da sempre (verrebbe da dire 'naturalmente') insita in sé? Se da una parte è innegabile che l’uomo non è nuovo a esperienze di potenziamento tecnico (molti di voi staranno leggendo queste righe grazie agli occhiali) e chimico (basti pensare a quanto la caffeina, uno stimolante, sia parte integrante della nostra cultura), dall’altra è giusto ponderare con più attenzione che cosa motivi l’assunzione di farmaci come il Ritalin o l’Adderall (sintetizzati per trattare persone affette da sindrome da deficit di attenzione e iperattività, narcolessia o problemi di apprendimento) o il ricorso alla tDCS da parte di individui 'sani', e se tale motivazione sia giustificabile.
Pensiamo a situazioni competitive in specifici contesti. Nei campus Usa sembra che numerosi studenti – non ci sono dati ufficiali, ovviamente – facciano spesso affidamento su potenziatori cognitivi nella speranza di garantirsi voti migliori, In quei casi, finiscono con l’essere ingiustamente svantaggiati i non utilizzatori. Inoltre, vengono falsati i risultati circa l’effettiva affidabilità di un candidato per lavori delicati: se un pilota di aereo passa l’esame grazie a un farmaco, quando non potrà assumerlo rischierà di mettere a repentaglio la sicurezza dei passeggeri. Considerato che l’uso di potenziatori cognitivi, in particolare la tDCS, è ampiamente diffuso tra gli e-gamers (con un enorme mercato di stimolatori fai-da-te: il settore non è infatti regolato), la recente inclusione degli e-sports (i videogiochi di ultima generazione) tra le discipline olimpiche pone di fronte a un bivio. O – come suggerito da molti bioliberali – lo sdoganamento implicito del potenziamento cognitivo fungerà da apripista per tutti gli altri sport – rendendo il doping lecito in tutte le sue forme –, oppure (e sembra essere questa l’intenzione di Wada e CIO) la strada dovrà essere quella di maggiore attenzione a nuove forme di doping.
Un problema potrà essere dato dal fatto che l’uso della tDCS non è tecnicamente rilevabile. Ma i principi di sicurezza, uguaglianza, lealtà e correttezza che stanno alla base del divieto di doping nello sport possono ispirare anche una riflessione più ampia sulla questione del potenziamento cognitivo in tutti gli ambiti della società.