Intervista. Più vecchi, più sani: dov'è il segreto?
La popolazione invecchia, ma non è sempre un bell’invecchiare. Come rendere sereno l’allungamento della vita di una quota crescente di persone? È lo scopo degli studi sulla longevità, alla ricerca dei “segreti” raccontati dalla fisiologia e dalla genetica di chi valica i 90 e anche i 100 anni in buone condizioni. Una recente ricerca dell’Università di Copenaghen ha mostrato le potenzialità del gene Oser1, parte di un insieme di geni che potrebbero aiutare a mettere a punto farmaci più efficaci per le ma-lattie legate all’età. Tra i grandi specialisti di studi in questo campo c’è Paolo Madeddu, cardiologo, docente all’Università di Bristol. Che ci aiuta a capire a che punto siamo nella conoscenza della “quarta età”. «È noto – ci spiega – che lo stress prodotto da diversi fattori ambientali e da malattie comuni nella popolazione anziana convergono in una modifica di meccanismi molecolari delle cellule umane. In termini semplici, questo stress si può ricondurre alla formazione di molecole instabili che perpetuano reazioni ossidative a catena. Esistono meccanismi protettivi che tamponano lo stress ossidativo, e sono controllati da fattori di trascrizione che a loro volta regolano diversi geni e le relative proteine.
Il lavoro danese, da poco apparso su Nature Communcations, individua un gene a valle della famiglia dei fattori di trascrizione noti come Foxo. Un aspetto molto interessante è che Oser1 non solo pare proteggere dallo stress ossidativo ma anche associarsi a una vita più lunga negli essere umani. Questa associazione non significa che Oser1 sia il gene che ci assicura di vivere più a lungo: è probabile che insieme ad altre proteine antistress assicuri un più lento declino della funzione dei nostri organi vitali e quindi riduca la probabilità di incorrere in malattie, o ne attenui le complicazioni. Una volta scoperto quali altre proteine protettive sono coinvolte si potrà probabilmente arrivare a terapie che proteggono da malattie da invecchiamento invece che cercare di limitare il danno già provocato».
Qual è la frontiera attuale in materia?
La conoscenza di geni e proteine implicate nell’invecchiamento sta rapidamente aumentando, ma sono pochi i geni e le proteine che hanno dimostrato di essere importanti e comuni a varie popolazioni. Più spesso i pazienti hanno geni modificati che funzionano male o particolarmente bene come conseguenza di piccole modifiche della sequenza del gene. Siamo interessati a quelle modifiche che spesso si verificano casualmente nella popolazione con risultati positivi sulla salute, ovviamente senza trascurare le modifiche che portano a malattie.
Da dove nasce il suo interesse per questo tema? Ha qualcosa a che fare con le sue radici in Sardegna, una regione con elevata incidenza di “grandi anziani”?
La Sardegna non è l’unica area dove vivono centenari, la prerogativa di quelli sardi è però che molti di loro vivono a lungo ma sani. Rimane ancora un mistero perché questo avvenga: diversi geni e fattori ambientali possono contribuire, c’è ancora molto da studiare.
Si può azzardare una “formula della longevi-tà”, tra genetica, stili di vita e alimentazione?
Purtroppo ancora non esiste, bisogna diffidare dai faciloni che propongono ricette, specie sul web. La lezione dai nostri centenari è che hanno saputo creare un ambiente ideale circondandosi di fattori positivi – piante da frutto, cereali... – e affettivi, come vivere in comunità supportive. Questa intelligente cooperazione tra geni umani, animali e vegetali crea una sorta di nicchia biologica ideale per vivere a lungo e sani, anche se rimane a noi sconosciuta la componente molecolare che lega queste interazioni. Sta agli scienziati decifrare questo codice segreto.
L’età media della popolazione si sta allungando. Stiamo modificando in modo irreversibile la nostra attitudine a vivere a lungo, trasmettendola ai discendenti?
Non credo che al momento si possa parlare di una crescita indefinita dell’età umana: in certi Paesi si assiste piuttosto a una stabilizzazione dell’aspettativa di vita. Più che altro cresce la proporzione di popolazione anziana, ma questo dipende anche dalla bassa natalità. Quello a cui dobbiamo mirare è invecchiare bene piuttosto che puntare a vivere più a lungo. Promuovere campagne di salute, per esempio tramite interventi di riduzione delle tasse ai pazienti che si impegnino a ridurre il rischio di malattia (obesità, fumo) potrebbe rivelarsi economicamente e socialmente vantaggioso perché consentirebbe anche nel lungo termine di ridurre la spesa sanitaria, che sta diventando insostenibile. Viviamo in una società diseguale dove pochi hanno accesso a cure costose e talora sono overmedicate (prendono cioè medicine spesso non necessarie), mentre una vasta porzione ne è esclusa nonostante sia esposta a rischio di ma-lattia (cattiva alimentazione e fumo sono ancora retaggio della povertà).
La sua è una storia piuttosto ricorrente tra i ricercatori italiani: studi nelle nostre università , ma opportunità che si aprono all’estero. Qual è la sua esperienza?
Sono un cardiologo clinico che si è sempre dedicato alla ricerca traslazionale. Laureato a Sassari, ho lavorato in Medicina interna presso la stessa Università e nel 2005 sono stato chiamato tramite un percorso per talenti eccezionali a ricoprire il ruolo di professore ordinario presso l’Università di Bristol, nel Regno Uniti. Ho pubblicato circa 400 lavori scientifici e ottenuto finanziamenti per svariati milioni di sterline. La ricerca in Inghilterra è estremamente competitiva ma non c’è alcuna preclusione nel cooptare talenti. Piuttosto che preoccuparci di non perdere talenti italiani dovremmo investire per fare la stessa cosa nel nostro Paese, attirando cioè ricercatori da altri Paesi. Passi in questo senso sono stati fatti, ma occorre fare di più: i salari per i ricercatori e la premialità nella carriera sono insufficienti in confronto ad altri Paesi europei. Bisogna anche impegnarsi per far sì che la ricerca di base sia orientata sin dall’inizio al servizio della società e facilitata nel percorso traslazionale, dove molte ricerche si fermano per i costi elevati che non possono essere affrontati con i normali fondi di ricerca richiedendo investimenti rilevanti. Confrontarsi con le reali necessità della gente diventa sempre più pressante per escludere ogni disuguaglianza e ridurre la distanza tra il mondo della ricerca e la società civile.
A quali ricerche si sta dedicando e quali evidenze emergono dai suoi studi?
L’obiettivo del lavoro del mio gruppo è stimolare la capacita riparatrice di cellule vascolari chiamate periciti che fortificano i vasi sanguigni e migliorano il flusso di sangue a organi vitali. Molte malattie cardiovascolari si accompagnano al distacco dei periciti (vedi il caso della retinopatia diabetica) o al loro invecchiamento (come nei pazienti con malattia coronarica o scompenso cardiaco). Stiamo studiando una proteina scoperta dal mio collega professor Annibale Puca, espressa in forma modificata in ultracentenari che godono di ottima salute sino in tarda età. Il trasferimento di questa proteina ad animali, diabetici o anziani migliora la funzione vascolare e cardiaca, promuovendo una sorta di ringiovanimento dell’orologio biologico del cuore. La scoperta che la proteina di Puca riesca a essere efficace anche quando trasferita ad animali incoraggia a pensare che un effetto benefico possa essere ottenuto anche in pazienti con malattie cardiovascolari. Ma la strada è ancora lunga prima di poter iniziare studi clinici.