Vita

L'intervista. «Per l’autismo serve un grande sforzo comune»

Graziella Melina venerdì 9 gennaio 2015

Non è possibile «curare l’autismo con pseudo-cure prive di qualsiasi validazione scientifica». Carlo Hanau, professore di Statistica medica all’Università di Modena e Reggio Emilia, direttore di un master a distanza sull’autismo e componente del Comitato scientifico dell’Angsa (Associazione nazionale genitori soggetti autistici), tiene a sottolinearlo: «Noi speriamo che la ricerca di biologia molecolare faccia luce sulle cause dell’autismo, cercandole anche fra le combinazioni sfavorevoli di più geni, che presi a sé stanti non darebbero problemi. Così si può sperare di trovare le medicine appropriate». Professore, i casi di autismo in aumento sono davvero allarmanti? In tutti i Paesi l’autismo aumenta drammaticamente. Negli Usa i casi di autismo sono aumentati di recente del 15% l’anno. La prima sfida è capire quanto di questo aumento sia dovuto al reale diffondersi dell’autismo e quanto al modo di classificarlo. Stefan Hansen ha pubblicato nel 2014 un grande studio su tutti i nati in Danimarca fra il 1980 e il 1991 e ha dimostrato che il 60 per cento di questo aumento è dovuto ai modi di classificazione. Questo cosa comporta? Che probabilmente il 40% dell’aumento è reale e occorre trovare le cause per poterle eliminare, per non danneggiare pesantemente la salute delle generazioni future e per avere la possibilità di curare i bambini che soffrono oggi. Quali sono le cause note? Oggi conosciamo una ventina di patologie rare monogeniche diverse, ciascuna delle quali può provocare il comportamento autistico: ognuna di queste è associata a una piccolissima parte di autismi, e tutte insieme coprono soltanto un quinto dei casi di autismo. Via via che si scoprono le cause, i casi vengono riclassificati sotto la rispettiva definizione. Ad esempio l’Organizzazione mondiale della sanità classificava le sindromi di Rett fra quelle autistiche, ma poiché successivamente sono state scoperte le cause, ossia il gene Mec P2 o il Cdkl5, verranno riclassificate a parte, fra le malattie genetiche. È dunque sulla genetica che va concentrato l’impegno dei ricercatori? La genetica è fondamentale, come l’epidemiologia ha dimostrato da una trentina di anni. Se una coppia ha un bambino con autismo le probabilità di averne un altro con gli stessi problemi sono molto superiori a quelle della popolazione generale, e si aggirano mediamente intorno al 10 per cento. Oltre alla trasmissione genetica familiare ereditaria si ritrovano oggi tante mutazioni de novo, errori occorsi nel concepimento e non trasmessi da nessuno dei genitori. Ad esempio, una vasta ricerca condotta in Israele dimostra che con l’aumento dell’età del padre cresce la probabilità di un figlio con autismo. Tra le cause nascoste possono essercene anche altre non riconducibili ai geni... Oggi si parla molto spesso di "epigenetica": l’autismo viene causato da una predisposizione genetica che può essere scatenata da fattori esterni, come l’inquinamento ambientale. Due ricerche condotte negli Usa provano che l’utilizzo di insetticidi nelle case fatte di legno, oppure l’abitazione posta al primo piano di strade trafficate intensamente, aumentano il rischio di autismo per il figlio della donna gravida che vi risiede. Cosa vi aspettate dalla ricerca biomedica? L’autismo non è una malattia, è un comportamento provocato da alcune patologie note e tante altre ignote. Ognuna di essa spiega un centesimo del numero degli autistici che ci sono oggi. Da un lato dobbiamo concentrarci sulle analisi genetiche e sui fattori scatenanti per cercare le cause; dall’altro la farmacologia sta cercando la "scorciatoia": un rimedio che possa compensare i difetti comuni a più cause diverse. Una grande azienda farmaceutica, insieme all’Unione europea e ad altri partners, è ora molto impegnata in un progetto del costo di 35 milioni di euro. La speranza è che si trovino presto farmaci adeguati e cause da prevenire.